venerdì 28 novembre 2014

Vecchi incontri


Oggi voglio parlarvi di una storia vera. I nomi e pochi particolari saranno cambiati, ma un buon 95% è assolutamente il racconto autentico di una cosa che ho vissuto.
Anni fa, mentre l’università assorbiva quasi tutto il mio tempo in vista della laurea (con qualche esame superato in modi rocambolici, come direbbe la Gialappa’s Band), cominciai a fare pratica presso un centro. Qui a fare da capo del settore in cui mi muovevo io c’era un ragazzo, Giuseppe. Questo ragazzo, poco più che trentenne, beveva un po’ troppo, per sua stessa ammissione, e in passato aveva fatto uso di droghe. Un paio di anni prima era stato trovato dal fratello a letto, con delle bottiglie tutt’intorno, il cuore si era appena fermato. Per sua fortuna, tutto ciò era avvenuto pochi secondi prima che il fratello entrasse in stanza e così fu salvato in extremis e portato in ospedale, dove rimase in coma per qualche settimana prima di riprendere la sua vita senza nessuna conseguenza. Il tutto mi era stato confermato da un suo amico di vecchia data, Alfredo, che pure lavorava lì.
Un piccolo miracolo, che lui celebrò con un tatuaggio in cui c’era la data della rinascita, ovvero di quando era stato riportato in vita dal fratello. Lo aveva disegnato da solo, ci aveva messo anche una collana che realmente portava al collo e da cui non si separava mai. Da allora si era molto controllato e sembrava tornato nei ranghi, seppur i suoi ranghi prevedevano un quantitativo di alcool maggiore rispetto alla media.
Giuseppe era fidanzato con una ragazza che lavorava nello stesso centro, e che aveva un buon rapporto con la madre di Giuseppe stesso. La donna quindi veniva ben volentieri a farci visita. La signora portava il figlio, come si suol dire, “in palmo di mano”. Ogni lavoro che faceva era migliore di quello di qualsiasi altro. A sentire la madre, sapeva cucinare da Dio, fare un caffè napoletano da leccarsi i baffi, aggiustare un’automobile partendo da singole lamiere di metalli vari (la benzina l’avrebbe sintetizzata dalle lamiere) e così via. Gli giustificava quindi anche gli eccessi e il fatto che aveva una resistenza inumana all’alcool, a mio avviso una cosa da non celebrare dati i suoi trascorsi, ma tant’è.
 
Non molti mesi dopo, a laurea ultimata, ho smesso di far pratica lì e pochi mesi fa mi sono ritrovato a salutare un amico che aveva studiato con me e che aveva un suo centro simile a quello in cui avevo lavorato in passato. Ho scoperto che bene o male in quest’ambiente girano sempre gli stessi nomi, e lì ci ho ritrovato Alfredo, l’amico di Giuseppe. Dopo aver passato un’oretta con il mio amico a chiacchierare, torniamo al suo centro e Alfredo mi fa sapere che Giuseppe è morto.
Lo guardo incredulo e gli chiedo come sia successo. Sembra che con il passare degli anni gli standard sul bere di Giuseppe siano risaliti a livelli critici, simili a quelli per cui aveva avuto il primo collasso. Una sera, dopo essere tornato a casa da una serata di eccessi, come sua nuova abitudine, era andato in stanza con una bottiglia. Il mattino successivo hanno trovato la bottiglia vuota e il ragazzo senza vita.
Le domande che mi pongo da allora riguardano quanto la sua scimmia fosse potente e quanto gli avesse influenzato la vita. Ma soprattutto, perché la madre aveva giustificato i comportamenti autolesionistici senza tentare di porvi freno. Quanto sarebbe cambiato in tal caso? O meglio, avrebbe potuto cambiar qualcosa se avesse tentato di farlo rinsavire?
Resta il fatto che Giuseppe ora non c’è più, caduto vittima dei suoi demoni, senza aver imparato nulla dalla prima esperienza, forse anche per causa di un genitore che gli permetteva tutto. Ed è un vero peccato perché magari non era il migliore in tutto come diceva la madre, ma bravo lo era sul serio e riusciva a guardare più lontano di altre persone.