mercoledì 26 settembre 2018

Un film sulla pelle


Qualche giorno fa, spinto dal passaparola e dagli interventi di diversi utenti sui social network, ho visto il film Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, ispirato ai reali fatti di cronaca inerenti l’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi.
Intanto, comincio col dire che per il protagonista, quell’Alessandro Borghi che avevo già apprezzato come “numero 8” Aureliano Adami nel film Suburra, merita tutti gli apprezzamenti ricevuti, anche dalla stessa famiglia di Stefano Cucchi. Il film è stato nella prima rosa dei candidati italiani a uno degli Oscar 2019 prima di cedere il passo a “Dogman”, altro traguardo che attesta il buon lavoro fatto dal cast. Il protagonista ha perso 18 chili, e sia lui che gli altri, come detto in varie interviste, hanno dovuto “cancellarsi” per diventare Cucchi, la sua famiglia, i carabinieri che lo hanno picchiato e così via. La stessa Ilaria Cucchi, sorella di Stefano la quale dal 2009 porta avanti una crociata, ha affermato che Borghi era così somigliante che ha sperato in una fine diversa, quasi come la teoria degli universi paralleli.
Mai come in questo caso, non si può dividere la pellicola dalla realtà: a casa di Cucchi sono stati trovati quasi un chilo di hashish e più di 130 grammi di cocaina, la cui presenza è stata denunciata dai genitori stessi al ritrovamento della droga, diverse settimane dopo la morte del figlio. A onor del vero, non riesco a immaginarmi nessuno che per uso personale tiene bloccati il quantitativo economico di un etto e mezzo di cocaina senza, invece, comprarne un grammo alla volta. La possibilità, quindi, che fosse uno spacciatore e non un ragazzo che fuma uno spinello di tanto in tanto, ha oscurato all’inizio il vero punto focale: se anche fosse stato un pluriomicida, non si può venir picchiati a prescindere dalle forze dell’ordine, il cui compito è arrestare i malviventi, non rompergli le vertebre, la mascella e l’orbita oculare (frattura tra le più pericolose, se anche fosse sopravvissuto avrebbe quasi certamente perso l’occhio). Il fatto che le morti sospette in carcere siano così numerose dovrebbe far capire che qualcosa non va alla base, e Stefano Cucchi non è un caso isolato.
Che poi debba esserci la certezza della pena per chi commette reato, è un’altra questione che andrebbe aggiustata di pari passo col mettere in sicurezza le condizioni carcerarie dei detenuti, insieme anche alla sanità: se fosse stato ben curato, come attestano i controlli fatti sul corpo di Stefano Cucchi, il trentenne non sarebbe morto. Sarebbe bastato somministrargli glucosio e cambiargli il catetere, ostruito, per dargli maggiori possibilità di salvezza. Due azioni alla base delle cure mediche, al di là di tutta l’insensata vicenda, che avrebbero fatto la differenza.