Anni fa, su un altro blog ormai defunto, postai un racconto a puntate. Postavo i vari capitoli appena scritti, ovvero senza conoscere ancora nei particolari come sarei andato avanti, e chiedendo consigli ai lettori.
Alcuni utenti furono a dir poco originali nei suggerimenti e diedero alla storia una virata improvvisa. Purtroppo in questo caso non potrò andare avanti bendato e facendomi guidare da voi lettori, prima di tutto perché quello che state per leggere è un mio racconto già pubblicato l’anno scorso in un’antologia, e poi perché tratta una storia vera, per quanto romanzata, e quindi la linea da seguire è già stata tracciata dalla storia.
È uno dei racconti che rileggo con piacere, soddisfatto del risultato. Spero sarà così anche per voi. Buona lettura.
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IL TUNNEL
Paolo Merenda
Questo bacio che hai dato non svanirà mai più (Orchestral Manoeuvres in the Dark)
Ci sono gallerie che restano buie. Non importa quanta
potenza sprigionino i fari delle vetture che le attraversano: in alcune
gallerie l’unica luce è quella che si vede lontana, all’uscita.
Tsutomu Yamaguchi giaceva in un letto d’emergenza, con gravi
ustioni sul lato sinistro del corpo, ma poteva sorridere. Da poche ore aveva
ricominciato a vedere. Sì, l’esplosione lo aveva anche accecato, ed era stata
così forte da fargli temere di aver perso l’uso degli occhi. I medici lo
avevano rassicurato, ma se ci si trova in un nascondiglio antiaereo, bloccato a
letto, dopo una simile esperienza, non si ripone molta fiducia in nulla.
Non lo avevano rassicurato sulle conseguenze a lungo
termine, però. Nemmeno ci avevano provato, il che paradossalmente gli dava una
flebile speranza sulle ustioni, che forse sarebbero sul serio guarite.
Ora che aveva gli occhi per farlo, la luce in fondo al
tunnel sembrava più vicina, di pochi passi ma indubbiamente più vicina.
Moltissime altre persone, un soldato si era fatto scappare
l’inconcepibile numero di 130.000, non potevano dire la stessa cosa, anzi non
avrebbero potuto dire più nulla. Tsutomu invece ci si era ritrovato dentro per
caso, arrivato da poco a Hiroshima per lavoro.
Quella stessa mattina, il 6 agosto, appena poche ore prima,
aveva un appuntamento per conto della Mitsubishi Heavy Industries. Era stato
inviato dai supervisori in quanto progettista di petroliere, uno dei più bravi
in seno all’industria, in una delle città all’avanguardia in tal senso. Non
ricordava più nulla della sveglia, della colazione e del resto, fino
all’autobus, dove la sua vita era cambiata.
Stava scendendo dal tram, questo lo ricordava, e ricordava
anche le due persone che, evidentemente più frettolose di lui, lo avevano
superato nella inevitabile corsa alle porte. Poi una luce fortissima, un boato
terrificante e si era ritrovato all’interno del mezzo, incastrato tra due
sedili. Le due persone frettolose erano spalmate sui finestrini: l’onda d’urto
le aveva sbalzate indietro, ma trovandosi pochi passi più avanti si erano
letteralmente aperte battendo la schiena contro le portiere che stavano per
richiudersi.
Mentre perdeva i sensi, molto più in alto Paul Tibbets si
rendeva conto delle conseguenze dell’azione. Il colonnello era partito con il
suo equipaggio, a bordo del velivolo Enola Gay, per sganciare Little Boy su
Hiroshima. Un lavoro come un altro in seno all’esercito, che ad alcuni elementi
a bordo del Boeing B-29 andava più che bene, pur di farla pagare ai giapponesi.
A lui non interessava tutto questo: era un militare e aveva una missione da
compiere. Punto.
Ma nel momento in cui l’ordigno atomico esplodeva, lui vide.
La voce fu poco più che un sussurro: «Mio Dio, cosa abbiamo fatto!»
La mattina successiva, nonostante il parere contrario dei
medici e dei soldati, partì per la sede centrale della Mitsubishi, lasciando la
distruzione portata dalla bomba atomica a Hiroshima.
Non poteva restare, non solo per il fallout nucleare, ma
perché non avrebbe resistito un’altra notte in quel locale zeppo di feriti.
I suoi occhi funzionavano ormai abbastanza bene, stava
camminando a forte velocità nel tunnel, verso l’uscita. Ecco, non voleva
ammetterlo ma aveva centrato il punto: doveva ripartire, muoversi, tornando a
una vita normale, per quanto possibile. E non lo avrebbe fatto restando in un
letto fatiscente, ascoltando gli altri feriti che si lamentavano e che
morivano. No, era un sopravvissuto, e voleva continuare a esserlo.
Lui, Tsutomu Yamaguchi, avrebbe voltato pagina. Sorrise al
pensiero, fin quando la pelle sotto il mento si tirò troppo e gli fece male
alle bruciature, ben fasciate e protette.
Si avviò verso la stazione mentre cercava un giornale, anche
se dopo pochi passi rinunciò: gli bastava seguire i discorsi dei pochi civili
nelle vicinanze, la versione giapponese dei morti viventi. Settantamila,
centomila, centoventimila morti, un fungo atomico largo sei chilometri, ce
n’era abbastanza per non voler leggere più nulla sull’argomento. Chissà, forse
un giorno avrebbe scritto un libro sulla sua esperienza, anche se non aveva
visto il fungo e in effetti non sapeva praticamente nulla di ciò che era
successo. Ci si era “solo” trovato dentro.
A volte non serve sapere troppo, anzi è meglio il contrario.
Quali sarebbero state le conseguenze per Hiroshima? E per gli altri
sopravvissuti? Per lui?
Partì, senza temere nulla. Aveva già oltrepassato l’inferno.
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Per ora abbiamo finito, spero stiate apprezzando.
Se volete continuare la lettura qui trovate la seconda parte.
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