domenica 23 dicembre 2018
Misteri della natura, un ritorno piccante e allucinogeno
Mi sono già occupato su questo blog, in questo intervento, di quanto può essere particolare la Natura, tanto da sembrare a tratti misteriosa se non si hanno le giuste chiavi di lettura per capirla. Conoscenze che in effetti mancano anche adesso agli studiosi del settore, da qui ad esempio le numerose spedizioni di ricerca nelle foreste meno accessibili del pianeta in cerca di nuove forme di vita.
Senza andare troppo lontano, sapevate che esiste un peperoncino allucinogeno? Se state per confondervi associando “peperoncino” a “Messico”, non è il peyote, che non è un peperoncino ma un cactus messicano con queste caratteristiche, ma qualcosa di più vicino a noi.
Parlo del Capsicum Cardenasii, conosciuto come Ulupica, e proveniente da Perù e Bolivia ma diffuso ormai dovunque, anche in Italia. Si tratta di un peperoncino selvatico, difatti ancora adesso viene raccolto prevalentemente in questo modo e non attraverso coltivazioni fatte apposta per il frutto piccolo e tondo. La particolarità di questo prodotto è che, crescendo in maniera selvatica, ha trovato “riparo” nelle vicinanze di alcune graminacee, tra cui la segale cornuta, infettata dal fungo Claviceps Purpurea. Questo fungo è meglio conosciuto per l’alcaloide che contiene, l’acido lisergico, da cui si estrae l’LSD. Dato che, nello stesso terreno, diverse forme di vita trovano l’equilibrio miscelandosi, l’Ulupica ha sviluppato particolari caratteristiche allucinogene. Purtroppo per chi, leggendo questo post, non vede l’ora di cercarli per cibarsene e ascoltare “Lucy in the Sky with Diamonds” dei Beatles, va specificato che la facoltà allucinogena è davvero leggera dato che lo scambio è contenuto, così come la segale cornuta con piante di peperoncini nei pressi non diventa piccante. Difatti l’ho usato in un racconto scritto tempo fa e ho dovuto inventare apposta una versione potenziata dall’uomo.
Delusi? Proverò a parlarvi di un nuovo caso particolare offerto dalla Natura prossimamente, nel frattempo buon Natale. Mangiate molti peperoncini durante il cenone: allucinogeni o no, sono buonissimi e fanno bene.
mercoledì 28 novembre 2018
The Man In The High Castle, buona la terza
Ho appena terminato la visione della terza stagione di Man In The High Castle, uno dei pochi telefilm che seguo con continuità, in attesa di una eventuale nuova stagione di X-Files, che sarebbe la dodicesima, l’arrivo in Italia della dodicesima stagione di The Big Bang Theory (questa già girata e distribuita America) e, a memoria, niente altro.
Doverosa precisazione per chi vuole continuare la lettura: non troverete nessuno spoiler.
Tornando a noi, devo dire che queste dieci puntate sono state come un motore diesel, che è migliorato col passare del tempo. Ho molto apprezzato alcune scelte, altre mi hanno stupito, ma nulla di deludente, forse perché (mi è parso di capire) si sta iniziando a vedere la fine. Un paio di morti eccellenti toglieranno per le successive stagioni personaggi principali di cui si sentirà la mancanza, ma col senno di poi almeno una era giusta. Per le altre attendo alla finestra, poiché credo appunto che tutto sia in chiave di una fine sempre meno lontana.
Vedendo i vari trailer temevo una serie TV che avrebbe virato verso la Resistenza, guerriglia e altro, ma sono stato piacevolmente smentito. Uno dei punti di forza di The Man In The High Castle è presentare tutto come: “Tu, fruitore, stai vedendo come sarebbe il mondo se i nazisti avessero vinto la guerra. Ti muovi in mezzo a loro, ai dissidenti, anche a guerriglia e resistenza, perché no, ma non sentirai cantare Bella Ciao tutto il tempo”. Apprezzo lo sforzo e l’originalità degli sceneggiatori di non fare qualcosa di già visto, fermo restando che ho gradito moltissimo la trilogia di libri (e i quattro film) di Hunger Games, quelli sì sul sovvertire la dittatura come punto centrale. Ovviamente la mano del mai troppo osannato Philip Dick, autore de “La svastica sul sole”, romanzo da cui è tratta la serie TV e ripubblicato col titolo “L’uomo nell’alto castello” in seguito al successo del telefilm, si vede, ma non tutto si limita al suo apporto.
Ultimo aspetto, il cliffhanger finale, ottimo per richiamare a casa i fan quando ci sarà una quarta stagione. Ok, i cliffhanger ormai li vendono un tanto al chilo, ma c’era troppa carne sulla brace per poterla togliere in sole dieci puntate.
domenica 28 ottobre 2018
L’avversario peggiore di Roman Reigns
È di questi giorni la notizia che il WWE Universal Champion, Roman Reigns, si sia di nuovo ammalato di leucemia, dopo aver lottato contro di essa per 11 anni, ed averla sconfitta già una volta. Durante un toccante promo nella puntata di Raw di lunedì scorso, ha reso vacante il titolo ed è stato salutato dai wrestler che con lui formano la stable dello Shield, Seth Rollins e Dean Ambrose.
Roman Reigns è, di fatto, l’uomo di punta, il simbolo moderno del wrestling, quello che ruota sempre attorno alla cintura principale oppure ha feud che mettono in ombra la lotta per la cintura stessa, e con la sua assenza si aprono interessanti scenari. Ora, ovviamente sarei contento se tornasse e avesse un regno da campione di 1001 notti che Sherazade levate, ma la sua gestione mi ha sempre lasciato perplesso: non è mai stato accettato totalmente dal pubblico perché “costretto” a vincere dalla dirigenza che ha puntato su di lui come su nessun altro. Eppure, nelle ultime edizioni di Wrestlemania è sempre andato per il titolo o per match altrettanto importanti (è stato l’unico, oltre a Brock Lesnar, a battere Undertaker allo Showcase of the Immortals), si doveva sempre trovare spazio per lui o farlo perdere in modo che sembrasse comunque dominante.
Ecco, è mai possibile che l’uomo di punta della federazione mondiale di punta (scusate la ripetizione) del wrestling debba farsi da parte solo se ha un tumore? Non sarebbe stato meglio puntare, a suo tempo, su Seth Rollins, Braun Strowman o altri? Lo stesso, lunghissimo, regno, di Brock Lesnar, oltre 500 giorni, si è verificato solo perché veniva sempre rimandato il momento in cui Roman Reigns poteva batterlo senza una veemente protesta dei fan tra il pubblico. E avere Brock Lesnar come eterno traghettatore del titolo WWE in attesa dell’attimo giusto di Reigns la dice lunga su cosa sia stato creato col tempo.
A ogni modo, sperando che torni presto a vincere il titolo e farlo suo per anni, perché significherebbe che sta bene, spero altresì che Vince McMahon, Triple H e chi altri approfittino di questo periodo per creare altri main eventer, così che popoli poco avvezzi al wrestling non conoscano solo le leggende (Shawn Michaels è stato “costretto” al ritorno lottato in Arabia Saudita, ad esempio) e Roman Reigns. Ne guadagnerebbero tutti.
mercoledì 26 settembre 2018
Un film sulla pelle
Qualche giorno fa, spinto dal passaparola e dagli interventi di diversi utenti sui social network, ho visto il film Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, ispirato ai reali fatti di cronaca inerenti l’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi.
Intanto, comincio col dire che per il protagonista, quell’Alessandro Borghi che avevo già apprezzato come “numero 8” Aureliano Adami nel film Suburra, merita tutti gli apprezzamenti ricevuti, anche dalla stessa famiglia di Stefano Cucchi. Il film è stato nella prima rosa dei candidati italiani a uno degli Oscar 2019 prima di cedere il passo a “Dogman”, altro traguardo che attesta il buon lavoro fatto dal cast. Il protagonista ha perso 18 chili, e sia lui che gli altri, come detto in varie interviste, hanno dovuto “cancellarsi” per diventare Cucchi, la sua famiglia, i carabinieri che lo hanno picchiato e così via. La stessa Ilaria Cucchi, sorella di Stefano la quale dal 2009 porta avanti una crociata, ha affermato che Borghi era così somigliante che ha sperato in una fine diversa, quasi come la teoria degli universi paralleli.
Mai come in questo caso, non si può dividere la pellicola dalla realtà: a casa di Cucchi sono stati trovati quasi un chilo di hashish e più di 130 grammi di cocaina, la cui presenza è stata denunciata dai genitori stessi al ritrovamento della droga, diverse settimane dopo la morte del figlio. A onor del vero, non riesco a immaginarmi nessuno che per uso personale tiene bloccati il quantitativo economico di un etto e mezzo di cocaina senza, invece, comprarne un grammo alla volta. La possibilità, quindi, che fosse uno spacciatore e non un ragazzo che fuma uno spinello di tanto in tanto, ha oscurato all’inizio il vero punto focale: se anche fosse stato un pluriomicida, non si può venir picchiati a prescindere dalle forze dell’ordine, il cui compito è arrestare i malviventi, non rompergli le vertebre, la mascella e l’orbita oculare (frattura tra le più pericolose, se anche fosse sopravvissuto avrebbe quasi certamente perso l’occhio). Il fatto che le morti sospette in carcere siano così numerose dovrebbe far capire che qualcosa non va alla base, e Stefano Cucchi non è un caso isolato.
Che poi debba esserci la certezza della pena per chi commette reato, è un’altra questione che andrebbe aggiustata di pari passo col mettere in sicurezza le condizioni carcerarie dei detenuti, insieme anche alla sanità: se fosse stato ben curato, come attestano i controlli fatti sul corpo di Stefano Cucchi, il trentenne non sarebbe morto. Sarebbe bastato somministrargli glucosio e cambiargli il catetere, ostruito, per dargli maggiori possibilità di salvezza. Due azioni alla base delle cure mediche, al di là di tutta l’insensata vicenda, che avrebbero fatto la differenza.
giovedì 2 agosto 2018
Kiki Challenge, la genesi del fenomeno
La polizia di tutto il mondo contro la Kiki Challenge. Il nuovo fenomeno social preoccupa non poco le forze dell’ordine di diversi Paesi, spiega il Guardian, e in tanti cercano di prevenire eventuali rischi.
La polizia di Mumbai ha emanato una circolare in cui chiede di non dedicarsi a questa rischiosa attività, mentre le forze dell’ordine spagnole hanno ricordato che i conducenti delle auto impegnati nella Kiki Challenge potrebbero essere incriminati. In Florida è stata istituita una multa di 1000 dollari con possibili implicazioni penali. Ma gli avvertimenti al momento stanno riscuotendo poco successo.
Un passo indietro: che cos’è la Kiki Challenge? È una di quelle sfide che vengono lanciate tra utenti social periodicamente, come la Mannequin Challenge - in cui si doveva restare fermi come manichini, un po’ come accade con il freeze del Grande Fratello - o la Ice Bucket Challenge - che però aveva degli scopi benefici e non presentava grossi rischi se effettuata senza particolari varianti.
La Kiki Challenge consiste nell’uscire dalla propria automobile mentre ci si trova in strada, improvvisando un balletto sulle note di “In My Feelings”, una delle hit più conosciute di Drake, che nel ritornello recita “Kiki, do you love me?”, da cui il nome della sfida, che viene chiamata anche “In My Feelings Challenge”. Nei filmati che si vedono sui social, si assiste a persone che cadono, che sbattono contro dei pali, che vengono investite - anche se il video più noto in tal senso, con protagonista una ragazza bionda, si è rivelato essere fortunatamente un fake - o scippate.
Tutto è partito dal video di un comico di nome Shiggy, che ha pubblicato un video - divenuto presto virale - in cui balla sulle note della canzone con una coreografia bizzarra. Alla Kiki Challenge hanno aderito anche personaggi famosi, come Ciara oppure Will Smith che si è esibito così sul ponte di Budapest - avvisando però i suoi spettatori di non emularlo.
martedì 31 luglio 2018
Piccole opere d’arte crescono
Qualche sera fa, mentre ero al bar, per l’ennesima volta hanno passato in TV il videoclip di “Next to me” degli Imagine Dragons. Ora, preciso che non mi piace il genere e di conseguenza la canzone, anzi non ho mai sentito nominare gli Imagine Dragons (questa, lo ammetto, potrebbe essere una mia lacuna musicale). Ma, complice il fatto che attendevo un paio di amici, ho dato un’occhiata al video mentre sorseggiavo una birra fresca, perfetta per il caldo che dobbiamo tollerare tra luglio e agosto.
Ed è per questo che vi parlo di “Next to me”, non la canzone ma il videoclip. Non è un unicum nel mondo della musica, sia chiaro, ma la storia narrata è davvero complessa e piena di colpi di scena (per quanto può offrirne un video musicale, sia chiaro). Su Youtube, è presente anche una versione più lunga di quella che ho postato io, di 11 minuti circa, e il regista della piccola opera d’arte è Mark Pellington. Pellington non è certo l’ultimo arrivato: regista, è attivo dalla fine degli anni ’90, e ha diretto attori del calibro di Richard Gere e Jeff Bridges. Come regista di videoclip musicali, ha lavorato con i Pearl Jam (“Jeremy”) e gli U2 (“One”), poi Bruce Springsteen, Nine Inch Nails, Foo Fighters, Linkin Park, per finire con Michael Jackson.
Quindi, non solo vi consiglio di vederlo, ma ve ne posto la versione breve. Se avete tempo, gustatevi anche la versione lunga, è facilmente reperibile. E poi, chissà, a voi potrebbe piacere anche la canzone in sé.
domenica 24 giugno 2018
Il bruco della morte
Dato che lo scorso post, su alcune tra le forme di vita più particolari al mondo, è stato da voi ben apprezzato, e dato che sto continuando le mie ricerche in vista di una nuova storia da scrivere, oggi voglio parlarvi del Lonomia obliqua, il bruco killer.
Quando si parla di bruchi pericolosi viene subito in mente la Processionaria, molto pericolosa per i cani e altri animali, e che risulta dolorosa anche per la razza umana. Ma in Brasile e in Argentina, se si è molto sfortunati, si può incontrare questo bruco, di colore verde o marroncino (per mimetizzarsi con gli alberi), conosciuto come bruco assassino, dato che la sua puntura provoca di fatto la morte per coagulazione intravascolare disseminata, in pratica il veleno del Lonomia obliqua provoca trombi che portano alla morte l’organismo colpito.
Prima che venisse scoperto, non si pensava che nessun bruco avesse abbastanza veleno da risultare mortale per l’uomo. Il lato positivo, tuttavia, è che servono più di 20 punture per dare la quantità letale di tossina. C’è un lato negativo, ovviamente: questi bruchi hanno numerosi aculei, quindi basta il contatto con un esemplare per avere più di una puntura. Inoltre si muovono in gruppo e si mimetizzano tra gli alberi, sui tronchi.
Immaginatevi la scena: viaggio in Brasile, per far colpo sugli amici o sulla ragazza ci si mette un rametto in bocca stile cowboy e ci si siede all’ombra di un albero, appoggiando la schiena al tronco. Peccato non aver visto i bruchi mimetizzati, e d’improvviso ci si ritrova con meno di 24 ore da vivere. In Brasile è stato addirittura messo a punto un antidoto specifico per evitare la morte, ma bisogna correre all’ospedale attrezzato più vicino. Sempre che il turista dell’esempio fatto ora sappia dov’è e sia nei paraggi.
Un’ultima curiosità riguarda la falena, del tutto innocua, che si sviluppa da questo bruco, non attraverso un bozzolo come di solito avviene ma sotto dei nascondigli di terra. Vive solo una settimana, perché non ha la bocca per mangiare, e quindi muore di stenti. La Natura, a volte, ha un forte senso dell’ironia.
sabato 26 maggio 2018
Misteri della natura: zombie, ninja e cappi mortali
Negli ultimi tempi sto raccogliendo idee per una storia che voglio scrivere, per questo sto leggendo di esseri viventi peculiari e particolarità della natura. In realtà non sono nuovo a questo genere, avendo già realizzato un lungo racconto sui funghi predatori, pubblicato su un’antologia di autori vari, ancora reperibile e apprezzata nonostante sia passato qualche anno dalla sua pubblicazione.
Trovandomi a parlare con amici degli esseri viventi che sembrano sfuggire alle normali classificazioni, ho notato che molti sono rimasti sorpresi, non conoscendoli affatto. Per questo ho deciso di raccogliere i tre che hanno solleticato maggiormente la mia curiosità.
Partiamo dalla formica zombie, che è la mia idea di partenza della storia cui facevo cenno prima. Nella foresta pluviale del Brasile sono stati scoperti quattro nuovi funghi che, di fatto, trasformano le formiche in zombie. Il principale, l’Ophiocordyceps camponoti-balzani, prende il possesso del cervello della formica attraverso le spore, e fa camminare il corpo ormai morto verso un luogo che, per umidità, è di gradimento del fungo. Qui fa mordere alla formica un ramo per ancorarla, poi ne lascia il controllo, “uccidendola” (già era morta da tempo). Alfine rilascia le spore che, con un po’ di fortuna, infetteranno altre formiche ripetendo il ciclo di vita. Vi segnalo questo link in cui sono meglio spiegati i vari passaggi, e ci sono anche dieci foto affascinanti che vi consiglio di vedere.
Un’altra scoperta relativamente recente è quella della lumaca felina o lumaca ninja, l’Ibycus Rachelae, trovata nelle foreste pluviali del Borneo. Il nome, “ninja”, richiama l’esperto guerriero che lancia le “stelline” di metallo con le punte acuminate. Come i ninja, questa lumaca riesce a sputare anche a lunga distanza (calcolando che la lumaca è circa 4 cm) “stelline” di carbonato di calcio. Pensavo fosse per difesa personale, una intrigante forma di adattamento che Charles Darwin avrebbe apprezzato, invece la realtà è più frivola, seppur ugualmente fondamentale per la specie. Le stelline di carbonato di calcio vengono lanciate per centrare le femmine, che grazie agli ormoni contenuti nel composto tendono ad avvicinarsi al maschio che le ha colpite. Interessante, a mio avviso, che sia le lumache che i funghi di cui ho già parlato si trovino nelle foreste pluviali. Come detto dagli stessi studiosi, hanno scoperto solo la punta dell’iceberg delle particolarità in natura che un clima come quello ha favorito.
Infine, il Monacrosporium ellipsosporum, conosciuto anche come fungo predatore o carnivoro, già utilizzato in un mio racconto che è stato molto apprezzato. Trovo che i funghi siano tra le più misteriose forme di vita. Il fungo predatore, ad esempio, non si sviluppa con la classica forma che tutti conosciamo, ma si allarga su un prato con dei filamenti. Le ife, la parte inferiore del cappello dei funghi classici, formano dei cappi che restano in attesa di vermi. Quando un nematode ci passa attraverso, i cappi si stringono e le ife penetrano all’interno del corpo della vittima, infettandola, tanto che anche se fuggisse, morirebbe nell’arco di un giorno. Se invece, come accade quasi sempre, il cappio blocca il verme, il fungo predatore ne occupa il corpo ormai morto e allarga la sua “tela” occupando il posto del nematode ormai assimilato. La struttura fungina, verme dopo verme, può occupare anche una porzione di terra molto ampia, ma niente paura, non aumenterà in potenza catturando gatti o cani, ad esempio.
Cos’altro verrà scoperto, tra organismi presenti sulla Terra da millenni e altri nuovi, figli delle ultime mutazioni genetiche?
venerdì 13 aprile 2018
X-Files, è la fine (di nuovo)
Con l’undicesima stagione di X-Files andata agli archivi da ormai una dozzina di giorni (calcolando l’arrivo delle puntate in Italia, in America l’ultima è andata in onda quasi un mese fa), torno sull’argomento già affrontato in questo post, quando l’undicesima stagione era appena cominciata.
Alla fine, riferendomi alle aspettative, scrivevo “spero [...] niente puntate riempitivo ricche di gag comiche”, ma non sono stato ascoltato, non pienamente almeno. “L’effetto Mandela” infatti ha una vis comica gradevolissima, tranne quando attendi di sapere cosa sarà di William, figlio di Fox Mulder e Dana Scully, o almeno i due pensano che sia così.
William, l’adolescente braccato da chiunque, riesce a trovare i suoi spazi in tre puntate cariche di pathos e tensione: la 1, la 5 e la 10. Quelle, sì, sono imperdibili, compreso il drammatico finale di stagione e, si dice, di serie. Un finale più sereno, diciamo così, l’ho visto solo all’ottava stagione, con Mulder e Scully che portano a casa il bambino neonato di Scully e si baciano, tra l’altro dopo che nel corso della puntata Walter Skinner ha pure eliminato un temibile e storico avversario dei due agenti dell’FBI, Alex Krycek. E proprio il finale con un punto gigantesco, l’Uomo che Fuma ucciso a colpi di pistola (seppur sia caduto in mare e, si sa, se non c’è cadavere può sempre tornare), e Dana Scully che dice a Fox Mulder di essere incinta, finalmente di lui e non tramite rapimenti alieni, mi fa pensare. Troppo tranquillo, anche per quanto riguarda la presunta morte di Skinner e quella certa di tutti, proprio tutti i cattivi.
All’ottava stagione seguì una nona magistrale, sarà così anche stavolta? Gillian Anderson, l’attrice che interpreta Scully, ha già detto di aver salutato, definitivamente, il personaggio dell’agente FBI al lavoro sugli X-Files, casi apparentemente inspiegabili. A mio avviso, non sarà certo un problema per Chris Carter spiegarne l’assenza se vuole continuare su questa strada, anche perché David Duchovny tornerebbe “sul luogo del delitto” indossando la giacca scura dell’FBI, e con lui penso gli altri. Ma, e questa è una domanda che rivolgo a voi, c’è bisogno che torni ancora e ancora?
venerdì 30 marzo 2018
Non c’è bisogno di scappare
Innanzitutto preciso, per chi non lo avesse ancora visto, che non troverete spoiler. Potete proseguire tranquilli la lettura.
Qualche settimana fa mi sono goduto il film “Scappa - Get Out”, spinto da una persona che me ne aveva parlato bene. Specifico che ci sono tre persone che, se mi consigliano un film, tengo in grande considerazione perché difficilmente sbagliano un colpo.
Me lo sono goduto, dicevo, perché è semplice e lineare come non mi capitava di vederne da tempo. Ok, amo il cervellotico “Inception” di Christopher Nolan, regista che cerco di seguire nelle sue creazioni, e che vede il premio Oscar Leonardo DiCaprio come protagonista. Ma ogni tanto un film di spessore può essere anche senza note da cogliere al volo, pena il non capire più nulla del resto.
La famiglia Armitage è stata scelta davvero bene, in ogni suo membro, e così il protagonista, il fotografo Chris Washington. Uno dei punti di forza è far pensare a un film sul razzismo in America, mentre in realtà affronta tutt’altro tema. Sì, il regista Jordan Peele ne approfitta per “risvegliare” le coscienze con opportuni messaggi contro la xenofobia, ma a fine visione capisci che è stato un enorme specchietto per le allodole.
Apprezzo particolarmente un altro aspetto: Scappa - Get Out ha vinto l’Oscar 2018 come migliore sceneggiatura originale, ricevendo altre tre candidature, tra cui miglior film. E il regista, nonostante sia attivo dal 2008 in diversi ruoli, è al suo esordio dietro la macchina da presa, quindi avrebbe potuto pagare l’inesperienza. Invece la giuria degli Oscar lo ha premiato, segno che non solo al fruitore medio piace un film “facile”, ma anche agli addetti ai lavori.
Con un po’ di fortuna e bravura da parte di altri sceneggiatori e registi, vedrò molte altre pellicole così, magari pluripremiate. Non mi dispiacerebbe.
martedì 27 febbraio 2018
I Super PJ Masks
Alcuni marchi risentono del comportamento del gregge, mi viene in mente l’esempio della fila notturna all’esterno dei centri commerciali in attesa del nuovo modello di i-Phone. La Apple in generale è un esempio perfetto, con molti utenti che difendono l’azienda fondata da Steve Jobs come farebbero per la madre.
I vestiti di una marca precisa hanno uguale matrice: col passaparola un marchio buono diventa simbolo di onnipotenza. I Levi’s sono oggettivamente ottimi, per forma, per come vestono, qualità dei tessuti e altro. Ma ciò non giustifica come siano, di fatto, diventati sinonimi universali dello stesso concetto di jeans. O meglio lo giustifica ripensando al comportamento del gregge: tutti ce l’hanno, devo averlo anche io altrimenti sono out.
A questo aspetto della natura umana sfuggono i cartoni per bambini in età prescolare, e parlo proprio di bimbi che non sono ancora andati all’asilo. Ognuno di loro, vedendo Rai Yo-yo, Disney Junior, Netflix o quel che capita, decidono tra i cartoni proposti quale sia il loro preferito. Per quanto in discesa, i Minicuccioli hanno riscosso un bel consenso. Peppa Pig, Masha e Orso sono altri due esempi di cartoni dal buon successo (Masha e Orso è davvero ben fatto, a mio avviso). Ma il ruolo del leone è appannaggio dei Super Pigiamini, il trio di bambini che di notte si trasforma in supereroi, poi “sfida e combatte la criminalità”, inteso come tre cattivi, uno su tutti il malvagio scienziato Romeo. Gattoboy, Gufetta e Geco (di giorno rispettivamente Connor, Amaya e Greg) devono sventare i piani della cattiva dal cuore buono, Lunetta, del Ninja della Notte con i suoi non tanto fedeli aiutanti Minininja, e appunto del cattivo per eccellenza, che vuole conquistare il mondo, Romeo. Si tratta di un cartone anglo-francese nato nel 2015 con il nome di PJ Masks e ancora in attività, con i tre protagonisti che strizzano l’occhio alla multirazzialità: Connor è afroamericano, Amaya orientale e Greg di razza caucasica.
Ebbene, i Superpigiamini piacciono a tutti i bambini o quasi. E parlo appunto di bambini ancora mai andati a scuola, quindi dalle interazioni sociali limitate alle festicciole o ai vicini di casa. Inoltre l’età, due anni e mezzo a dir tanto, significa anche un grado di consapevolezza minore, e quindi tre bambini diversi potrebbero in teoria preferire tre cartoni diversi senza sentirsi, scusate la ripetizione, “diversi”. La Dottoressa Peluche, Giulio Coniglio, Il giorno in cui Henry incontrò..., Elena di Avalor, le opzioni non mancano.
La mole di gadgets, dai palloncini, ai piattini e fazzolettini per feste, giochi, biscotti e chissà cos’altro, parla da sola, se li fanno vuol dire che c’è richiesta e si vendono. Quindi, la domanda che mi sono posto diverse volte è questa: dato che ogni bimbo ha scelto da solo, e la maggior parte ha scelto PJ Masks, cosa ha di unico questo cartone animato?
A me sembra la versione moderna dei Superkids che vedevo io da piccolo, ma qualcosa nei colori, nelle gag comiche, probabilmente colpisce la mente dei più piccoli in modo diverso, giustificandone il successo. È apprezzato da chi segue colori e suoni ma magari non ha piena consapevolezza dell’evolversi della storia, ma anche da chi, un pizzico più grande, capisce tutto ciò che accade e soffre nella prima parte, quando i tre eroi sono sul punto di perdere perché uno di loro, a turno, non fa lavoro di squadra.
Ecco, li studierò ancora per capire qual è la loro formula chimica, quale l’ingrediente segreto, come per la Coca-Cola. Secondo voi, quale potrebbe essere? Semplice casualità o ricetta ben precisa?
mercoledì 31 gennaio 2018
X-Files, torna in scena l’Uomo che fuma
Il Detentore della Verità, Raul Bloodworth (lo pseudonimo che usa per scrivere un romanzo), Carl Gerharhd Busch Spender, altrimenti noto come l’Uomo che fuma. È con lui che si apre l’undicesima, e forse ultima, stagione di X-Files. Ho atteso di vederne la prima puntata in italiano, mentre molti altri appassionati saranno già arrivati alla quarta (su dieci in tutto a quanto ho letto, non le venti circa alle quali eravamo abituati fino alla nona stagione), per non distrarmi nel seguire i sottotitoli nei punti poco chiari e godermi appieno lo spettacolo.
Debbo dire che attendevo il ritorno di Fox Mulder e Dana Scully dopo il cliffhanger con cui si è chiusa la decima stagione, finale con troppi punti interrogativi persino per come ha lavorato sulla trama il creatore Chris Carter nel corso dei 20 anni e oltre dall’esordio del telefilm, e che ama i finali aperti. Ottimo l’inizio, nel quale l’Uomo che Fuma dice chiaramente il suo nome completo per la prima volta in assoluto, ma l’espediente narrativo usato per uscire dalla decima stagione (arrivo degli alieni, Fox Mulder la cui morte era davvero segnata per la prima volta e attesa a momenti) sulle prime fa un po’ storcere il naso.
Come ho scritto in altri interventi, non vedo molte serie televisive: Big Bang Theory, The man in the high castle, X-Files, Timidamente amore (sulla pagina del Signor Distruggere) e basta, penso. Come parimenti detto in altre sedi le indagini dei due agenti dell’FBI le seguo fin dalla prima stagione, nel 1994, e in seconda serata su Italia 1 nelle varie repliche. Non riesco a non trovare scusanti al deus ex machina utilizzato, anche perché forse il progetto finale ne varrà davvero la pena. Però mi ha stupito per l’eccessiva semplicità, quello sì.
Qualcosa di tremendamente positivo c’è, appunto l’Uomo che fuma, al centro dell’azione come non accadeva da anni. Le puntate sulla teoria del complotto (spero quasi tutte, niente puntate riempitivo ricche di gag comiche, per carità) saranno un bel vedere. Voglio crederci.
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