giovedì 19 dicembre 2019

The Man in the High Castle, la fine di tutto


Qui sotto non troverete spoiler, tranne il pezzo finale, anticipato da un chiaro e palese avvertimento. Proseguite senza paura.

Dopo sole quattro stagioni (avrebbe meritato qualcosa in più per sviluppare meglio il finale, a tratti un pizzico veloce) si chiude la storia di The Man in the High Castle, la serie TV Amazon su un mondo distopico in cui Hitler e il nazismo hanno vinto la seconda guerra mondiale, grazie all’asse con il Giappone, e insieme hanno invaso e occupato gli Stati Uniti d’America. Il soggetto originale proviene dal libro “La svastica sul sole” di Philip K. Dick, conosciutissimo scrittore americano che ha spesso trattato la fantascienza, l’ideatore del telefilm è invece Frank Spotniz, celebre per il lavoro eccellente fatto su “X-Files”, diventato ormai ben più di una semplice serie TV.
Come ho accennato, a tratti un tantino veloce, la difficile ma a suo modo affascinante storia sulle dittature ha bisogno di respiro, tanto respiro. Ciò che avviene quando una dittatura si instaura segue regole più o meno standard, almeno quelle legate alla resistenza (che esiste in automatico, come conseguenza alle continue vessazioni dittatoriali). Gli oppositori si muovono nell’ombra e, qualsiasi cosa accada, prendono sempre più forza e si preparano giorno dopo giorno a sovvertire il regime.
Su questi topoi si muove anche The Man in the High Castle, che tra Juliana Crain e Wyatt Price per la Resistenza, l’ispettore Kido per i giapponesi e John Smith per i nazisti (interpretato da Rufus Sewell, che già conoscevo per il ruolo del cattivo in “The Illusionist”) muove le pedine in modo quasi perfetto. Tutti cambiano e maturano col tempo, e guadagnano il loro picco finale che tengono bene grazie alle doti attoriali. Se non l’avete ancora visto, approfittatene ora che è finito e cominciate.

* Da qui spoiler su un personaggio, non proseguite se non avete visto la quarta stagione.

Riguardo i cambiamenti dei personaggi e gli eventi che accadono a ognuno, devo dire che mi ero affezionato a Robert Childan, il proprietario del negozio d’antiquariato. La sua è una vera e propria epopea: da onesto commerciante a uomo che deve nascondersi e mangiare topi, poi riprende il controllo della sua vita, per ricadere in nuovi e più gravi problemi dovuti al regime. Quando tutto sembra perduto viene riabilitato ma, a quel punto, vuol seguire la neo moglie giapponese nel suo paese. E qui l’ultima caduta, che sembra fatale per il lieto fine di Childan. Per fortuna, grazie alla sua esperienza come commerciante, in extremis il lieto fine c’è. Almeno per lui.

domenica 20 ottobre 2019

Diego Armando Maradona, i numeri del numero 10


Diego Armando Maradona, el Pibe de Oro, il numero 10 per eccellenza, il calciatore più grande della storia, se non da solo, almeno in coabitazione con Pelé. Non ha certo bisogno di presentazioni, anche per le gesta che gli italiani e i napoletani in particolare ricordano, quindi passando oltre voglio prendere in esami alcuni numeri su cui riflettevo in questi giorni.
Arrigo Sacchi, allenatore con il quale l’Italia ha quasi vinto il Mondiale 1994, arrendendosi solo ai rigori al Brasile in finale, ha detto di lui che è l'unico calciatore che, da solo, poteva far vincere una partita alla sua squadra e cambiarne il volto. Ebbene, numeri alla mano è esattamente così. Partiamo dalla sua carriera in Italia, all’ombra del Vesuvio dopo che l’allora presidente Ferlaino riuscì a portarlo a Napoli dal 1984 al 1991: la Società Sportiva Calcio Napoli vanta (oltre a cinque Coppe Italia e due Supercoppe italiane) una coppa europea, la Coppa Uefa, e due scudetti, vinti tutti tra il 1987 e il 1990 (oltre alla prima Supercoppa italiana nel 1990/1991, tra l’altro). E, aggiungo en passant, il Napoli avrebbe ben meritato un terzo scudetto in questi ultimi campionati, ma si è trovato sempre di fronte una Juventus imbattibile; inoltre, la semifinale della Coppa Uefa 2014/2015 persa contro la debuttante (a quei livelli) Dnipro grida ancora vendetta, dato che per tutti il Napoli era la squadra favorita per vincere la coppa europea. Difatti il Dnipro perse poi in finale con il Siviglia mostrando tutta la sua inesperienza.
A ogni modo, se al Napoli è sempre mancato qualcosa tranne quando c’è stato Maradona, alla nazionale argentina, nelle competizioni del Mondiale di calcio, non è andata meglio. La Selección ha in bacheca due Mondiali, uno nel 1978 (Maradona era ancora giovane, ma già impegnato a vincere i Mondiali di calcio under 20 l’anno successivo). Ma, negli anni in cui ha espresso il miglior calcio, Diego Armando Maradona ha un tabellino di marcia senza precedenti nei Mondiali. 1986: Argentina vincitrice, grazie anche a Inghilterra-Argentina 1-2, due reti di Maradona iconiche, ovvero la Mano de Dios e il Gol del Secolo, premiato come tale dalla FIFA. 1990: Argentina seconda (in Italia) dopo aver perso la finale 1-0 con un rigore dubbio, si dice anche dovuto a un arbitraggio di proposito sfavorevole dopo che l’Argentina aveva eliminato proprio l’Italia in semifinale. 1994: prime due partite di girone, due vittorie per la Selección. Poi Maradona venne beccato dall’antidoping, squalificato, le successive due vennero perse dall’Argentina che andò fuori dalla competizione.
Questi numeri, a mio avviso, li fa solo chi, come detto da Sacchi, fa la differenza da solo. Cosa non riuscita a Lionel Messi o a Alfredo Di Stéfano, due altre figure calcistiche argentine d’indubbia bravura, che non possono fregiarsi di un Mondiale vinto.
Cosa ne pensate? E avete altri numeri da proporre, sia a favore che a sfavore della causa?

venerdì 20 settembre 2019

Glow, il wrestling femminile spopola (in una serie TV, su Netflix)


Ho terminato da qualche settimana la visione della terza stagione di Glow, la serie TV Netflix che, sembra, al momento attuale non è stata ancora rinnovata per una quarta stagione. Come ho accennato più volte, preferisco evitare i telefilm in genere perché da un film entri ed esci in due, tre ore, mentre una serie TV (facciamo un esempio) di otto stagioni, ognuna con 10 puntate da un’ora, occupano 80 ore libere. Che, tendenzialmente, non ho.
Ma per Glow, come con altre (The OA, The Big Bang Theory, X-Files, The Man in the High Castle e qualcos’altro) ho fatto una rara eccezione, perché mi hanno incuriosito. Nella fattispecie, ho visto Glow da amante del wrestling di lungo corso. Alcuni degli eventi narrati sono fedeli alla realtà della nascita del wrestling femminile (la Gorgeous Ladies of Wrestling è esistita alla fine degli anni ’80), e di quello maschile anche, quando ci si stava organizzando e regnava il caos. Basti pensare, facendo un caso relativamente recente, alla ECW e al caso Mass Transit del 1996, un ragazzo preso letteralmente dal pubblico per svolgere un match, e in cui rischiò di morire dissanguato.
La storia delle ragazze, da ciò che si vede sul ring alle dinamiche dietro le quinte, appassionano e tutti i personaggi lasciano qualcosa allo spettatore. C’è però un punto che non mi convince: proseguire a oltranza la serie perché è vista da un buon numero di persone. Sembra (non mi ci sono mai avvicinato perché non finisce mai) che Game of Thrones abbia scontentato parte del pubblico con alcune scelte delle ultime stagioni, e secondo me si rischia di fare lo stesso con Glow. Inoltre, un match di wrestling si conclude al conteggio di tre, come fatto notare dal video pubblicitario che ha accompagnato il lancio della terza stagione. Quindi, “poeticamente”, il conteggio di tre è finito, e con esso si dovrebbe dare un punto alla storia televisiva. Invece, proprio da poche ore è stata rinnovata per una quarta e, sembra, ultima stagione. Certo, il finale aperto e gli ascolti hanno portato a questa scelta, ma andando molto oltre ci si addentrerebbe su un terreno minato. Meglio lasciar vivere la propria vita immaginaria a queste ragazze, da Ruth alle altre.
Almeno questo è il mio pensiero, beninteso, anzi se volete dirmi la vostra fatelo nei commenti, per messaggi privati o dal vivo, scegliete voi.

sabato 17 agosto 2019

Chernobyl, la serie tv


Ultimata la visione della serie tv in cinque puntate, torno a scrivervi degli eventi di Chernobyl, nella versione che passa dall’occhio della macchina da presa diretta da Johan Renck, che a sua volta ha raccolto informazioni da un libro-denuncia di Svetlana Alexievich, nel corso della carriera premiata anche con il Premio Nobel per la letteratura. Johan Renck, oltre ad aver diretto episodi di Breaking Bad, Vikings e The Walking Dead, ha avuto lo stesso ruolo in videoclip musicali di artisti come Madonna, Kylie Minogue, Robbie Williams e gli scomparsi Chris Cornell e David Bowie, che l’ha scelto per dirigere due dei tre videoclip del suo ultimo album in studio, “Blackstar”.
Non gli ultimi arrivati, forti anche di una storia che, di fatto, è la cronaca di eventi reali ricamati il giusto da una fiction funzionale ai tempi televisivi. Come ho già detto qui, ho visto numerosi filmati sul disastro di Chernobyl prima della miniserie televisiva, ragion per cui ho potuto intuire i punti inventati (pochi) per rendere interessante la visione da ciò che è preso da documenti reali (la maggior parte). Le mie impressioni sulla pellicola confermano i buoni voti presi su siti e giornali del settore, e la brevità, cinque puntate senza possibilità di rinnovo, danno a tutta l’opera un’impronta ben precisa: un lungo film, diviso per convenienza in 5 pezzi, che inizia e finisce, senza timore di essere snaturato da ascolti stratosferici che possano spingere gli autori a produrre altre stagioni.
Tutto perfetto per quel che intendo io come serie tv, anche se forse più di qualcuno amerebbe un seguito di “Chernobyl”, magari solo televisivo e senza prendere spunto da altri disastri nucleari (già a Fukushima c’è stato un “seguito” reale di cui avremmo fatto a meno).
Una delle cose che ho maggiormente apprezzato, oltre alla quinta puntata con il processo ai responsabili (e la denuncia sui motivi dell’esplosione), sono state le informazioni a margine della sigla finale. Già sapevo che, nonostante i morti siano stimati in diverse decine di migliaia, l’Unione Sovietica ne riconobbe 31 nel 1987 e da allora non ha mai rivisto le stime. Di fatto, solo gli scienziati morti nell’esplosione e quelli presenti nella struttura il 26 aprile 1986 alle ore 1:23:45 secondi circa. Ma altri particolari che non sapevo mi hanno colpito, come la sorte di alcune delle persone accorse per sventare danni peggiori. Senza contare gli aggiornamenti sui vestiti che i pompieri avevano addosso quando hanno tentato di spegnere l’incendio con semplice acqua.
Tutto da seguire, magari dopo aver letto qualcosa, fosse anche solo la pagina Wikipedia sul disastro di Chernobyl. Vi preparerà e vi farà apprezzare meglio la serie tv.

martedì 30 luglio 2019

Chernobyl, l’evento


Qualche tempo fa Youtube ha cominciato a consigliarmi video riguardanti studi sulla centrale nucleare di Chernobyl, che ne hanno reso tristemente famosa la zona. Non seguendo molto la televisione per mancanza di tempo, i primi giorni, come gli abitanti di Chernobyl non sapevano dell’esplosione del nocciolo del reattore, io non sapevo della serie TV apprezzata più della pietra miliare rappresentata da Game of Thrones, e che stava riportando in auge la questione in tutte le salse.
Ho visto molti dei filmati, tra cui l’intera puntata dedicatale da Piero Angela a Superquark, scoprendo alcuni particolari che mi erano finora sfuggiti. L’esperimento andato male nel 1986 per la forte negligenza del personale è solo la punta dell’iceberg, con i vertici politici russi che hanno di fatto causato altre morti tentando di tenere nascosto il disastro nucleare. Ma scoprire che l’incendio, adesso, a 33 anni di distanza, non è ancora spento, o ancora che la zona non sarà abitabile per altri millenni, lo ignoravo. Però avevo altri elementi su cui misurare la gravità dell’episodio, legati a quand’ero bambino.
Infatti, del 1986 ricordo molte cose (come la “Mano di Dio” e il gol più bello della storia del calcio di Maradona ai mondiali sulla cui vittoria finale dell’Argentina c’è un suo grosso, e decisivo, zampino), tra cui i timori dei miei genitori sull’acquistare la verdura. Mi sono chiesto: e se fossimo stati nell’epoca dei social già allora cosa sarebbe successo? Una parziale risposta si può avere dall’altro grosso disastro nucleare, di Fukushima nel 2011, che però non ha riguardato così direttamente l’Italia, quindi la risposta è appunto lacunosa. Ma se ci fossero stati i social network nel 1986 mi immagino i link di fake news, la disinformazione continua e quant’altro, in grado di peggiorare la percezione di un fatto già tragico di suo.
Ecco, questo è il motivo per cui l’informazione dovrebbe essere sempre corretta e veritiera. Anche i duri e puri del complotto a tutti i costi, sotto sotto, si fidano di ciò che leggono, ma le fonti principali non sono sempre scevre di errori.
Ho recuperato la miniserie in 5 puntate su Chernobyl e, anche se la visione prosegue a rilento, tornerò a scriverne quando avrò finito, per parlarvi di una serie TV che mi sta già appassionando molto, e non sono ancora arrivato a metà.

domenica 30 giugno 2019

It all ended with the big bang


Nei giorni scorsi ho visto le ultime due puntate della dodicesima stagione di “The Big Bang Theory”, “La costante del cambiamento” e “La Sindrome di Stoccolma”. Innanzitutto voglio precisare, in caso non foste ancora riusciti a vedere la fine di un telefilm cominciato nel 2007 e proseguito fino ad ora, che non ci saranno spoiler. Per chi invece ha terminato la visione, capirete di cosa sto parlando senza che io nomini esplicitamente gli eventi.
I colpi pirotecnici, in realtà, almeno per me erano abbastanza telefonati, seppur toccanti nel modo in cui sono stati posti. Avevo dato per scontato un nuovo bimbo in arrivo, ma con quattro protagonisti maschili di cui tre sposati (in realtà i papabili sono tre, dato che Howard ha fatto una vasectomia) non era difficile aspettarselo. Ma la cosa che mi ha più colpito è stato come tutti i pezzi siano stati incastrati alla perfezione dagli sceneggiatori. Sheldon dimostra un’umanità come mai prima, nei confronti della moglie Amy ma anche di tutti gli altri; Leonard e Penny, se paragonati alla prima stagione, sono maturati in modo pazzesco anche se lineare e graduale, in modo da non dare shock ai fruitori della serie TV; Howard e Bernadette, ormai datisi alla vita matrimoniale, sono una coppia felice; Raj è alla perenne ricerca del vero amore, con un divertente colpo di scena nell’ultima puntata; perfino il complessato Stuart, il proprietario della fumetteria, decide di andare a convivere con una ragazza, Denise, superando numerosi blocchi mentali e diventando un uomo.
Un grande assente, a mio modo di vedere, nelle ultime due puntate è stato Zach, l’ex fidanzato di Penny, la cui parabola in “The Big Bang Theory” si conclude poco dopo la metà della dodicesima stagione. Un piccolo ruolo per omaggiare il suo contributo l’avrei ben visto.
E ora, cosa faranno tutti coloro resi “orfani” dalla fine del telefilm? Intanto c’è “Young Sheldon”, per chi non l’avesse ancora visto (come me, ma non so quando lo recupererò), inoltre mai dire mai. Ormai hanno ripreso vecchie serie TV e rifatto di tutto, dieci, quindici, venti anni dopo, quindi non mi stupirei se tra qualche tempo il gruppo di nerd dovesse “resuscitare”. Magari sacrificando parte della qualità, ma pur di rivederli potrei passarci sopra.

martedì 28 maggio 2019

La magia della polacca aversana


Numerose zone italiane hanno le loro tradizioni culinarie, e la Campania, regione in cui storicamente si mangia più che bene, non fa eccezione. Pizza, mozzarella di bufala, sfogliatella, babà, panuozzo, sono solo alcuni fulgidi esempi di come la cura del cibo è certosina. Ad Aversa in particolare è presente un dolce, solitamente mangiato per colazione, che si sta facendo spazio in tutta Italia: la polacca. Viene preparata con pasta morbida all’interno della quale si trova, nella versione classica, crema pasticcera e amarene sciroppate.
Specifico che si tratta della versione classica, la cui paternità è attribuita alla pasticceria Mungiguerra di Aversa, poco meno di un secolo fa, perché negli ultimi giorni ho avuto modo di fare un excursus su questo dolce così caratteristico ed endemico, che secondo l’apprezzamento della clientela si gusta al meglio al bar Pelosi, sempre ad Aversa. A una versione spuria con crema e cioccolato è stata aggiunta la cioccopolacca, con crema di cioccolato, anche se la novità assoluta è la polababà, che unisce la polacca aversana con il babà napoletano. In pratica, stessa preparazione ma uno strato di babà all’interno oltre alla crema.
L’ho trovata in un paio di bar di un paese limitrofo, e mi sono documentato sulla sua origine: appena il 6 marzo di questo anno è stata inaugurata ufficialmente dal bar Empire di Aversa, che ne ha anche registrato il marchio. In poco più di due mesi, sta macinando chilometri per raggiungere in notorietà la versione classica e quella al cioccolato. Non male per un dolce che, nonostante tutto, non si discosta mai dalla sua tradizione quasi secolare.
Ho ovviamente gustato in pochi giorni tutte e tre le varianti, e trovo ottima anche la polababà. Direi che non ci sono altri modi per rivoluzionare la polacca, ma con l’inventiva della gente del Sud, mai dire mai.

lunedì 29 aprile 2019

“Psyco”, Alfred Hitchcock e la teoria delle stringhe


Un po’ di tempo fa ho rivisto “Psyco”, il film del 1960 di Alfred Hitchcock, e oggi per l’ennesima volta mi è venuta in mente una domanda. Il “maestro del brivido”, riconosciuto universalmente come una delle figure principali della cinematografia, ha avuto il suo picco con la storia di Norman Bates, ripresa dai sequel e dalla serie tv su un giovane Norman. Ma il quesito che ora mi pongo e vi pongo è ancor più palese per film come “Gli uccelli” del 1963, con qualche effetto speciale in più.
Dunque, mi chiedevo: Alfred Hitchcock, nato nel 1899 e morto nel 1980, se fosse stato nel pieno della sua carriera adesso, sarebbe diventato comunque un’icona?
La risposta non è semplice e scontata, a mio avviso. L’indubbia qualità avrebbe svettato anche oggi, ma cosa si sarebbe perso per strada? “Gli uccelli” trasmette una suspense continua nonostante i pochi mezzi dell’epoca rispetto a quanto offre ai giorni nostri l’industria dell’intrattenimento, e se l’avesse realizzato nel 2018 avrebbe “giocato” molto di più, ma il rischio di non creare qualcosa di immortale ci sarebbe stato. Invece è ricordato ancora oggi, mentre “Psyco” figura addirittura quattordicesimo nella lista dei 100 film più belli della storia.
Una cosa sento che sarebbe andata diversamente: i premi. Il regista, dopo numerose nomination, ha vinto un solo Oscar e un Golden Globe, entrambi alla carriera (il Golden Globe appena due anni prima di morire). Una notte degli Oscar da protagonista sarebbe stato un traguardo bello e meritatissimo ma, ancora una volta, questo avrebbe cambiato il suo modo rivoluzionario di far cinema?
L’unica risposta potrebbe darla la teoria delle stringhe, restando su un tema caro a chi si occupa della settima arte, ma nel frattempo potete dire la vostra.

venerdì 29 marzo 2019

Friendly Floatees, le paperelle viaggiatrici


Ogni tanto mi piace andare a ripescare vecchie e curiose notizie per vedere se ci sono state novità nel corso dei mesi o degli anni. Non è questo il caso, ma rileggendo i particolari mi è venuto da scriverne per il blog, condividendo con voi questa storia.
Nei primi anni ‘90 erano in commercio i Friendly Floatees, degli animali di plastica galleggiante per rendere più piacevole il bagnetto dei bambini. Venivano chiusi in pacchetti da 4 animali: un castoro rosso, una ranocchia verde, una tartaruga azzurra e una paperella gialla. Solo su quest’ultima era impresso il logo di The First Years, la ditta che le produceva. Ebbene, nel 1992, una nave partita dalla Cina, dove questi giochini venivano prodotti per conto dell’azienda The First Years con sede nel Massachusetts, era diretta in America con diversi container. Per le condizioni meteorologiche avverse, il container con gli animaletti cadde in mare e si ruppe. 7.200 confezioni, per 28.800 giochi galleggianti totali (4 per confezione), cominciarono ad affiorare e farsi trasportare dalle correnti.
Tutto sarebbe finito lì, o al massimo avrebbe fatto aumentare la plastica presente nel Pacifico, ma due studiosi, Curtis Ebbesmeyer e James Ingraham, cominciarono a interessarsi all’argomento: dato che gli animaletti si lasciavano trasportare dalle correnti marine, segnalandone gli avvistamenti avrebbero potuto avere un’idea chiarissima di quali fossero le correnti di tutte le zone in cui venivano trovati. Le paperelle gialle, grazie anche al logo che le rendeva riconoscibili, superarono gli altri tre giochi in fama e vennero studiate nel corso degli anni. Dall’oceano Pacifico in cui erano cadute in acqua, toccarono le coste di Giappone, Alaska, Cile e incredibilmente, dopo un viaggio di 15 anni e 27.000 chilometri, la Gran Bretagna.
Ovviamente la notizia venne accolta con curiosità dalla popolazione, per cui gli animaletti viaggiatori divennero oggetto di collezione, arrivando a essere battuti all’asta, per pezzo singolo, fino a mille dollari (740 euro). Ma Ebbesmeyer e Ingraham erano i più interessati: la rotta seguita dalle paperelle fu disegnata per la prima volta, dando un fondamentale contributo al settore.
Seppure io non abbia trovato novità, la plastica può durare 100 anni prima di essere biodegradata, e quindi c’è ancora tempo per nuove segnalazioni e nuove correnti marine da scoprire. Il fascino della notizia ha ispirato film, pubblicità di automobili, un libro per bambini, una storia di Topolino e molto altro. E ricordate: se vedete una paperella gigante, 32 metri per 25, mentre siete in barca, non siete finiti in un’opera di fantascienza, ma è la “Mamma Papera” più grossa mai creata da un artista, nel caso specifico il belga Florentijn Hofman.

lunedì 25 febbraio 2019

Peste, quando la Morte Nera diventa rinascita


Qualche giorno fa ho scritto un articolo riguardante il cambiamento del corpo umano nel corso dei millenni. Nell’articolo si faceva cenno a come i progressi scientifici abbiano diminuito la forza della selezione naturale, e mi è venuta subito in mente la Peste Nera del 1347-1352, conosciuta anche come Morte Nera (non quella di Star Wars).
In breve la peste, i cui veicoli di contagio erano le pulci che vivevano sui topi asiatici, ed esplosa quando le pulci stesse sono passate ad attaccare l’uomo quando i roditori sono diminuiti, si è spostata dall’Asia all’Oriente all’Europa in poco tempo, grazie principalmente a scambi attraverso navi mercantili. Solo in Europa ha fatto diminuire la popolazione del 30% circa. Decine di milioni di morti che hanno cambiato profondamente il volto e gli usi e costumi delle popolazioni medievali presenti all’epoca. Il termine “quarantena” deriva proprio dalla peste nera: era il periodo di 40 giorni in cui le navi rimanevano attraccate ai porti prima di far scendere i passeggeri, per limitare (inutilmente) il diffondersi del contagio mortale.
Molte famiglie furono sterminate, in pratica tutti piansero un familiare morto, compresi bambini di pochi mesi, quindi parliamo di una tragedia, su quello non si discute. Ma quanto ha fatto in termini di selezione della specie quella malattia?
Citando due esempi su tutti, la diminuzione della popolazione, che tornerà sui livelli precedenti alla peste solo alcuni secoli dopo, portò i contadini a scegliere quale campo coltivare, valutando i migliori in termini di produzione, e fece aumentare la paga media data la scarsità di manodopera. Secondo esempio, in verità legato al primo, è quello della copia dei libri, fino ad allora affidata agli amanuensi con costi molto bassi. Quando le paghe aumentarono, l’ingegno umano portò alla nascita della stampa, che sarebbe arrivata molto dopo in presenza di costi contenuti per il lavoro a mano. Lo stesso passaggio dal Medioevo al Rinascimento è imputabile anche alla peste, e la selezione naturale fece ovviamente sopravvivere solo le persone più forti.
Nel 2019, invece, siamo in presenza di sovrappopolazione mondiale anche per le cure mediche sempre migliori. Ma a lungo termine quali saranno le conseguenze? Ditemi la vostra nei commenti o in altro modo.

giovedì 24 gennaio 2019

Funghi, cerchi delle streghe e un nuovo mistero


Rieccomi qui, nuovo anno e nuovo mistero. La scorsa volta vi ho parlato del peperoncino Ulupica, che viene infettato dal fungo dell’LSD diventando allucinogeno. Non a caso i funghi sono racchiusi, nell’ambito della biologia, in uno dei sette regni che, sommati, incorporano tutte le forme di vita conosciute, e quindi ben differenti da qualunque altra cosa esistente in natura.
Quali sono i rapporti tra funghi e streghe? In un racconto che ho scritto per un’antologia, ho parlato dell’Aspergillus fumigatus, dalle qualità particolari che pare fossero conosciute già dalle “streghe” nel 1300. L’Aspergillus, al contatto, rilascia spore tossiche che, se inalate, inducono uno stato di alterazione simile alle allucinazioni. Ebbene, i prati su cui si ritrovavano le streghe per i sabba pare non fossero altro che campi di Aspergillus, scelti con cura per poterci ballare sopra finché le spore rilasciate dal fungo non le stordivano tipo rave party. Praticamente, la discoteca prima che venisse inventata e senza pusher se non la natura stessa.
Ovviamente ci sono anche altre versioni sulla radice delle credenze che portarono all’Inquisizione, ma questa mi sembra la più affascinante e, al contempo, più divertente: me le immagino occupate a ballare come ossesse e inalare droga di proposito.
Altra radice, ma uguale fascino, hanno i cerchi delle streghe, cerchi di funghi sviluppati in circolo sui prati, con diametri anche di centinaia di metri. In breve, per alcune specie di funghi, quando nasce il primo di un grappolo gli altri si pongono tutti attorno al capostipite. Poi però, i nuovi funghi trovano più facile crescere verso l’esterno che riguadagnare il centro del cerchio, terreno già utilizzato dai loro “antenati” e quindi con pochi nutrienti perché sfruttato in modo massiccio. Dato che la Natura è perfetta, in assenza di ostacoli i cerchi lo sono altrettanto, dando vita a qualcosa che fa pensare agli alieni, al Demonio o a chissà cos’altro. Invece, sono solo una manna dal cielo per chi va a caccia di funghi nei boschi, perché gli basta seguire la circonferenza per farne incetta. E, al ritorno a casa, un bel risottino diventa d’obbligo.