lunedì 29 dicembre 2014

Capodanno primaverile


Tra un paio di giorni sarà Capodanno, verrà festeggiato il primo gennaio e l’inizio del 2015.
Prima di lasciarvi con gli auguri di rito, vi rubo un minuto per chiedervi: da quanto tempo è stato deciso che l’anno debba cominciare l’1 gennaio?
Ebbene, tutto risale a 46 anni prima della nascita di Gesù, quando Giulio Cesare cambiò il modo d’intendere l’anno dando un inizio nel periodo freddo. Prima, l’anno prendeva il via quando, praticamente, la terra tornava in vita, a primavera. E non deve sembrare un particolare strano, perché con il passare del secoli e dei millenni le cose sono molto cambiate, ma 4000 anni fa, quando Capodanno è stato festeggiato la prima volta, i frutti della terra e gli animali risvegliati dal letargo facevano la differenza tra vita e morte. Avere la possibilità di cacciare nuove prede e raccogliere frutta e verdura erano il crocevia grazie al quale tutto cominciava di nuovo. Di conseguenza, a cominciare era anche l’anno.
Ora, come chi vive in città nota di più, l’inizio della primavera è solo il pretesto per un’altra festa, ma non sempre è stato così, e non è così ancora adesso nelle zone disagiate del pianeta.
Adesso vi lascio ai preparativi dei festeggiamenti, buon anno a tutti, che sia come Natale se per voi è stato un bel giorno, e che sia molto meglio di Natale se vi aspettavate di più dal 25 dicembre. Auguri!

venerdì 28 novembre 2014

Vecchi incontri


Oggi voglio parlarvi di una storia vera. I nomi e pochi particolari saranno cambiati, ma un buon 95% è assolutamente il racconto autentico di una cosa che ho vissuto.
Anni fa, mentre l’università assorbiva quasi tutto il mio tempo in vista della laurea (con qualche esame superato in modi rocambolici, come direbbe la Gialappa’s Band), cominciai a fare pratica presso un centro. Qui a fare da capo del settore in cui mi muovevo io c’era un ragazzo, Giuseppe. Questo ragazzo, poco più che trentenne, beveva un po’ troppo, per sua stessa ammissione, e in passato aveva fatto uso di droghe. Un paio di anni prima era stato trovato dal fratello a letto, con delle bottiglie tutt’intorno, il cuore si era appena fermato. Per sua fortuna, tutto ciò era avvenuto pochi secondi prima che il fratello entrasse in stanza e così fu salvato in extremis e portato in ospedale, dove rimase in coma per qualche settimana prima di riprendere la sua vita senza nessuna conseguenza. Il tutto mi era stato confermato da un suo amico di vecchia data, Alfredo, che pure lavorava lì.
Un piccolo miracolo, che lui celebrò con un tatuaggio in cui c’era la data della rinascita, ovvero di quando era stato riportato in vita dal fratello. Lo aveva disegnato da solo, ci aveva messo anche una collana che realmente portava al collo e da cui non si separava mai. Da allora si era molto controllato e sembrava tornato nei ranghi, seppur i suoi ranghi prevedevano un quantitativo di alcool maggiore rispetto alla media.
Giuseppe era fidanzato con una ragazza che lavorava nello stesso centro, e che aveva un buon rapporto con la madre di Giuseppe stesso. La donna quindi veniva ben volentieri a farci visita. La signora portava il figlio, come si suol dire, “in palmo di mano”. Ogni lavoro che faceva era migliore di quello di qualsiasi altro. A sentire la madre, sapeva cucinare da Dio, fare un caffè napoletano da leccarsi i baffi, aggiustare un’automobile partendo da singole lamiere di metalli vari (la benzina l’avrebbe sintetizzata dalle lamiere) e così via. Gli giustificava quindi anche gli eccessi e il fatto che aveva una resistenza inumana all’alcool, a mio avviso una cosa da non celebrare dati i suoi trascorsi, ma tant’è.
 
Non molti mesi dopo, a laurea ultimata, ho smesso di far pratica lì e pochi mesi fa mi sono ritrovato a salutare un amico che aveva studiato con me e che aveva un suo centro simile a quello in cui avevo lavorato in passato. Ho scoperto che bene o male in quest’ambiente girano sempre gli stessi nomi, e lì ci ho ritrovato Alfredo, l’amico di Giuseppe. Dopo aver passato un’oretta con il mio amico a chiacchierare, torniamo al suo centro e Alfredo mi fa sapere che Giuseppe è morto.
Lo guardo incredulo e gli chiedo come sia successo. Sembra che con il passare degli anni gli standard sul bere di Giuseppe siano risaliti a livelli critici, simili a quelli per cui aveva avuto il primo collasso. Una sera, dopo essere tornato a casa da una serata di eccessi, come sua nuova abitudine, era andato in stanza con una bottiglia. Il mattino successivo hanno trovato la bottiglia vuota e il ragazzo senza vita.
Le domande che mi pongo da allora riguardano quanto la sua scimmia fosse potente e quanto gli avesse influenzato la vita. Ma soprattutto, perché la madre aveva giustificato i comportamenti autolesionistici senza tentare di porvi freno. Quanto sarebbe cambiato in tal caso? O meglio, avrebbe potuto cambiar qualcosa se avesse tentato di farlo rinsavire?
Resta il fatto che Giuseppe ora non c’è più, caduto vittima dei suoi demoni, senza aver imparato nulla dalla prima esperienza, forse anche per causa di un genitore che gli permetteva tutto. Ed è un vero peccato perché magari non era il migliore in tutto come diceva la madre, ma bravo lo era sul serio e riusciva a guardare più lontano di altre persone.

martedì 28 ottobre 2014

Sylvester Stallone, i Mercenari ma non solo


Che piaccia o no, Sylvester Stallone è uno degli attori viventi più rappresentativi al mondo. Pellicole, anzi saghe come Rocky e Rambo parlano da sé, non solo per i tre premi Oscar vinti per il primo Rocky, del 1976, tra l'altro con la sceneggiatura di Sylvester Stallone stesso.
L’attore di origini italiane (i nonni erano baresi) ha però, a mio avviso, avuto una seconda rinascita dal 2006 in poi, ovvero l’anno in cui è stato distribuito Rocky Balboa, il sesto e ultimo della saga sul pugile italo-americano. Da quel film in poi, e parlo da amante del genere, ha voluto regalare l’effetto nostalgia ai fan non solo dei suoi due personaggi rappresentativi, ma anche a tutti quelli del genere d’azione. Stallone ha diretto, tra le altre cose, secondo, terzo, quarto e appunto sesto film della saga su Rocky Balboa. È poi tornato nelle vesti di regista per John Rambo, 2008. Facile da intuire il suo intento: scrivere da sé la parola fine, omaggiare i due personaggi per poi passare ad altro. A cosa? Nel 2010 ha diretto il primo film di una trilogia che non può essere ignorata dagli amanti di questo genere. Sto parlando de “I Mercenari (The Expendables)”, che omaggia a sua volta il filone dei film d’azione che ha sempre un seguito vastissimo.
Per farlo ha chiamato un cast d’eccezione, proseguendo su questa falsariga con il secondo e il terzo film. Tra gli altri, a recitare nelle tre pellicole troviamo lui stesso, oltre ad Arnold Schwarzenegger, Bruce Willis, Mickey Rourke, Dolph Lundgren, Jason Statham, Jean-Claude Van Damme, Mel Gibson, Wesley Snipes, Harrison Ford, Antonio Banderas, il wrestler Stone Cold Steve Austin e Chuck Norris. E la lista potrebbe continuare.
La dicotomia con Schwarzenegger, che ha radici negli anni ’80, dopo la loro collaborazione nella serie dei mercenari, ha avuto una fine naturale con “Escape Plan - Fuga dall’inferno”, film del 2013, nel quale i due volti dei film d’azione hanno lavorato insieme come protagonisti per la prima volta.
Nomino appena “Il grande match”, sempre 2013, nel quale Stallone e Robert De Niro interpretano due pugili ormai ritirati che tornano sul ring un’ultima volta, film che sottolinea una volta di più la grande portata di quest’attore.
Cosa ancora potrà dare al pubblico, quale altro omaggio prima di voltare del tutto pagina e girare o recitare in film “nuovi”? Riuscirà mai a distaccarsi del tutto da ciò che ha dato in passato o proseguirà su questa strada? Fatemi sapere cosa ne pensate, sono davvero curioso di conoscere il vostro pensiero.

giovedì 4 settembre 2014

"Sotto sotto", la prima nazionale dell'opera di Renato Grilli



È andata in scena in prima nazionale di “Sotto sotto”, pièce scritta e diretta dal poliedrico artista Renato Grilli. Teatro della rappresentazione, uno dei locali messi a disposizione a Galatina nell’ambito della “Notte della cultura”, il 30 agosto scorso.
Lo spettacolo ha visto sul palco Renato Grilli, Alessandra Maggio e Antonella Musardo, coadiuvate dalla presenza scenica di Maria Gloria Maggio, sorella di Alessandra, e Francesca Congedo, figlia di Antonella. Il pubblico, foltissimo, ha seguito l’esibizione con interesse, segno che l’idea vincente alla base c’è. Ma, come si evince dalle parole dei tre protagonisti, qualcosa poteva andare meglio. Li ho intervistati al termine dello spettacolo, preceduto, dal 26 al 29, da uno stage di allestimento nei locali comunali della stessa città salentina.

Riguardo lo stage, Alessandra Maggio è stata molto critica: «Dire che è andato male è dire poco. Credo che questa problematica sia da attribuire come al solito a una rimescolazione politica di fondo. Quando si decide di organizzare un evento del genere bisogna saper organizzare e affidarsi a persone che lo sappiano fare. Se esistono i tecnici del suono  e dell’audio ci sarà un motivo... Meno male che avevamo il marito di Antonella che ci ha dato una mano. I giorni in cui si è svolto lo stage ci hanno dato una stanza chiusa della biblioteca, con 40 gradi. Successivamente ci siamo presi la libertà di spostarci da una stanzetta all’altra perché non riuscivamo a lavorare.» Renato Grilli, pur denotando tutte le lacune organizzative, ha però voluto sottolineare gli aspetti positivi: «Lo stage per me è pienamente riuscito. Ho avuto modo di allestire bene lo spettacolo, sapevo di avere Alessandra e Antonella e grazie ai loro feedback mentre leggevano e si preparavano sono riuscito a lavorare in modo ottimo, pur nelle difficoltà oggettive. Perché dico questa cosa? Il testo è quello, complesso, ha un tono alto, è scritto apposta così, non è un vero e proprio testo teatrale, è difficile per delle attrici. Qui eravamo su un testo pieno di ambiguità, e la loro risposta è stata straordinaria. Ma cosa è successo? Prima Antonella lo posta su Facebook, e dice ‘mi ci riconosco in pieno, sono io’ e proprio in seguito a questo, come prologo abbiamo scelto di fare un pezzo che dice ‘non ho più pazienza’. È stata una scena forte, una sorta di mediazione tra il testo e il pubblico. Non ho più pazienza, voglio amare solo chi mi ama, e ancora, due voci più la mia finale. Lo considero un ottimo lavoro, in Italia non c’è, mentre in Germania si chiama ‘dramaturg’: prendi dei testi preesistenti e li metti in bocca alla gente giusta per portarli in scena. In pratica devi saper scegliere gli attori a le parti da affidargli. Il dramaturg fa anche un lavoro, oltre, ad esempio, di riduzione dei testi di Shakespeare o di Goethe, di sciogliere il testo e svolgere un lavoro linguistico di sostegno agli attori. Questo è quello che mi piace fare e che credo di aver fatto: prendere dei testi che piacciono alle attrici e farglieli rendere al meglio in scena. Da questo punto di vista lo stage è stato fantastico.» Antonella Musardo è sulla stessa lunghezza d’onda: «Assolutamente soddisfatta, essendo per me la prima volta in questo campo. L’organizzazione non era il massimo, è vero, ma ho imparato davvero tanto.»

Sulla serata del 30, Musardo conferma le pecche organizzative, ma parla anche d’altro: «Abbiamo affrontato qualche problema: fari negli occhi, poco spazio per eseguire al meglio quello che avevamo preparato. Ma sono molto contenta di come è andata. Soddisfatta, devo imparare tanto, ma sono onorata e felice che il maestro Renato Grilli mi abbia voluta per questa bellissima esperienza al suo fianco.» Grilli ha parlato di alcune scelte tecniche, oltre che dei problemi affrontati: «Le incertezze dell’organizzazione sono state tali che il tono ci ha fatto capire di non aver fatto un buon lavoro. Non abbiamo avuto interlocutori competenti, ci hanno montato fari da discoteca invece che da teatro, e così via. Al di là di questo mi ha colpito, soprattutto nella prima parte, il pubblico: non sapevano a cosa andavano incontro, quindi io ho improvvisato una performance, mi sono lavato le mani, mi sono ‘battezzato’ e cercato di dire qualcosa, come a metterli in guardia. Un’altra invenzione è stata, date le due figure femminili molto forti, di far venire Maria Gloria e Francesca, vestite di bianco, a fare da contraltare alle due attrici vestite di nero, quasi a completare la profonda presenza femminile. Le ragazze avevano dei cartelli, su cui era scritto ‘Se impareremo a guardare riavremo gli occhi’ e ‘Se impareremo ad ascoltare riavremo le orecchie’, che è il senso dell’opera intera.» Maggio ha avuto, come Musardo, parole di elogio per Grilli: «Lo spettacolo di stasera, a parte tutti gli inconvenienti possibili e immaginabili, mi ha lasciato contentissima, sopratutto per aver avuto la fortuna di lavorare con il maestro Grilli, che è una persona carismatica. Ha molti doni, oltre a quello dell’arte drammatica e teatrale, la sua formazione parla da sé.»
Grilli si sta già organizzando per replicarlo altrove, come conferma sia lui che le due attrici: «Con i giusti presupposti, vogliamo replicare lo spettacolo: sto lavorando su un tono alto, ormai perso, e cerco le location giuste.» Scelta appoggiata in pieno da Musardo: «Sarei entusiasta di ripetere l’esperienza in qualunque posto.» Dello stesso avviso Maggio: «Mi auguro che il maestro ci riesca, ha già parlato di Ascoli Piceno e Cesena. Sarei molto più contenta di farlo lì che a Roma o Milano, perché mi piace andare nei posti in cui il teatro non ha una grande cassa di risonanza. Queste cittadine, belle e ben organizzate, dedicano ascolto e attenzione all’arte. Non facciamo di tutta l’erba un fascio, ci sono dei politici che hanno la dote di dare una mano alla cultura. Sono pochissimi, circa 2 partendo dai presidenti della Repubblica. Sono convinta che il teatro debba essere fatto a teatro, ma ci sono delle situazioni dove anche una piazza, un locale, può diventare teatro, se ci sono le giuste condizioni organizzative. Un personaggio come il maestro Grilli serve: si batte contro la decadenza dell’arte, che non riguarda solo la scrittura o il cinema, ma anche il teatro e la scrittura teatrale.»

sabato 23 agosto 2014

Orecchie e occhi in teatro



Debutta il 30 agosto, nel Chiostro del palazzo della Cultura a Galatina, lo spettacolo teatrale “Sotto sotto”, tratto dal racconto inedito Orecchie e occhi” di Renato Grilli, promotore dell’iniziativa, e che ha chiamato con sé Alessandra Maggio e Antonella Musardo. La genesi di questa pièce è molto particolare, e val la pena di essere raccontata.
Partiamo col dire che Renato Grilli è una persona che vive e respira teatro da decenni, e che vanta nel suo curriculum collaborazioni di assoluto spessore. Tempo fa scrisse in un paio di notti il racconto “Orecchie e occhi”, per poi riporlo in un cassetto. A maggio è stato contattato per conto di una rivista letteraria online, Samgha, a cui ha quindi mandato la storia, subito pubblicata. Il passaggio racconto-teatro è stato invece aiutato da amici che l’hanno letto e l’hanno proposto per uno spazio nel corso della Notte della Cultura e del Cibo. Una sorta di fiaba del nuovo millennio che lo porterà a una prima piuttosto particolare: verrà preceduta, dal 26, da una “prova aperta”, uno stage pomeridiano durante il quale verranno svolti esercizi preliminari e prove tecniche. Il 30, infine, la prima, aperta a soli 40 spettatori, accompagnati dalle attrici fino ai loro posti.
Renato Grilli definisce la performance “un rito, una cerimonia laica. Un antidoto per quei sensi, orecchie e occhi, oggi molto molto affaticati”. Lo stesso artista, dello spettacolo, dice: «Il racconto è lì, in rete, tutti lo possono leggere e trovarci quello che vogliono. A me interessava andare verso una sfida ulteriore: che cosa succedeva se erano altre voci a dirlo, a dargli corpo, a modo loro? Io del resto mi sento piuttosto che “autore”, un “curatore di trappole” per lettori iper-sensibili.»
Appuntamento, quindi, a Galatina il 30 agosto, a partire dalle 22.

lunedì 28 luglio 2014

Tutta una questione di pressione



Nel libro "Shining" di Stephen King, idea purtroppo non ripresa fino in fondo dall'ottimo film di Stanley Kubrick, la cosa a cui i Torrance dovevano stare più attenti non era la schiera di fantasmi dell'Overlook Hotel ma la caldaia della struttura stessa. In pratica, andava abbassata la pressione attraverso una valvola di sfogo per evitare che esplodesse.
Se ci si pensa bene, è lo stesso principio delle vacanze: rilassarsi e abbassare la pressione. Sono convinto che, qualunque sia l'occupazione svolta durante l'anno, si accumula stress. Di conseguenza, ci vuole un'azione in grado di far abbassare la pressione della caldaia. Possono esserci più modi, anche rimanere a casa senza far nulla, oppure occuparsi paradossalmente dei pestiferi nipotini, o ancora darsi al proprio hobby per tutto il giorno. La cosa fondamentale è smettere di fare quel che si faceva.
Alla fine, come detto dallo stesso King anche in altre circostanze, è tutta una questione di pressione, la stessa che porta una madre esasperata a far del male al proprio figlio nonostante lo ami come nessun'altra cosa al mondo, o ancora a distruggere una cosa a cui si tiene molto. Io riesco sempre a regolarmi bene, quindi non ho mai avuto picchi, ma quest'anno sono riuscito a ritagliarmi un bello spazio per le vacanze, quindi riesco ad apprezzare ancora di più la differenza.
La pressione della caldaia in Shining rifletteva la pressione addosso a Jack Torrance (e quella addosso a Stephen King nel periodo in cui scriveva quel libro). Vi consiglio quindi di leggerlo per capire le dinamiche mentali che scattano in determinate occasioni. Io vi saluto e vado a leggere a mia volta, su una spiaggia assolata dopo un tuffo rinfrescante. E se siete in ferie o state per andarci, buone vacanze!

domenica 29 giugno 2014

Le vere false teste di Modigliani


Negli ultimi tempi sto ascoltando spesso il recente lavoro di Caparezza, “Museica”, non solo perché apprezzo da anni la sua musica, ma anche perché posseggo il cd autografato dall’artista di Molfetta, incontrato nel corso di un meet & greet tenutosi in Campania.

Parlando con un amico con cui condivido questa passione musicale, che non conosceva la storia dietro uno dei pezzi, mi sono accorto che non tutti hanno capito appieno la canzone “Teste di Modì”, che trovo tra le più riuscite dell’intero album, anche perché sono riuscito a cogliere tutte le sfumature in quanto ricordavo perfettamente l’episodio reale da cui Caparezza ha preso spunto.

In pratica, nel 1984 (ho fatto ricerche e pensavo fosse molto più recente) su pressione dei fratelli Durbè, venne festeggiato il centenario della nascita di Amedeo Modigliani cercando di scoprire se una leggenda popolare fosse vera: in pratica si diceva che lo scultore avesse gettato nel Fosso Reale di Livorno alcuni esemplari delle sue celebri teste, in seguito a commenti poco lusinghieri da parte di amici. Vennero effettivamente trovate tre teste, che alcuni eminenti critici d’arte italiani, tra cui Giulio Carlo Argan, giudicarono non solo vere, ma preziosi manufatti. Di contro, Federico Zeri e Carlo Pepi furono scettici, ma risultarono essere le voci fuori dal coro.

Sulle tre teste venne anche scritto un catalogo che venne immediatamente messo in commercio. Il catalogo divenne una rarità in men che non si dica, perché, come dice Caparezza “quelle teste nelle teche sono tre ciofeche fatte da studenti con il Black and Decker”. Poche settimane dopo il ritrovamento, infatti, quattro studenti di Livorno si rivolsero al fortunato periodico “Panorama” denunciando la paternità di una delle teste, portando come testimonianza una foto con tre di loro che lavoravano sulla pietra grezza.

Vera Durbè, sorella di Dario e fautrice della ricerca sul fondale del Fosso Reale, sembrò non credere alla storia, ma le sue labili certezze vacillarono ancor più quando Angelo Froglia, nel tempo libero pittore e scultore, disse di aver creato le altre due teste.

Un autogol completo non tanto per il ritrovamento in sé, ma per i sedicenti esperti d’arte che si sperticarono in lodi, tanto che quando dieci anni più tardi un privato cittadino consegnò alle autorità tre vere teste di Modigliani, che teneva in officina senza darvi importanza, gli esperti d’arte ci andarono molto più cauti.
Trenta anni dopo l’episodio conosciuto come “beffa di Modì”, e tre dopo il film documentario “Le vere false teste di Modigliani”, ci ha pensato Caparezza a portare a conoscenza di un pubblico ancor più vasto una delle pagine più controverse, ma al contempo divertenti, della storia dell’arte italiana.
Eccovi di seguito la canzone “incriminata”. Buon ascolto.

venerdì 30 maggio 2014

Gorgeous George, la leggenda del wrestling secondo I Simpson



Ci sono wrestler, come Hulk Hogan, Undertaker ed Eddie Guerrero, che hanno superato le barriere della loro disciplina sportiva diventando icone, ed esponenti del wrestling che hanno aperto la strada. Colui che possiamo assolutamente definire il più importante in tal senso è Gorgeous George, che ha ispirato (per loro stessa ammissione) artisti e sportivi come Bob Dylan e James Brown, che deve a lui il “personaggio” che ha portato sul palco per decenni, ma anche Ric Flair, sua "copia" su un ring di wrestling, e soprattutto quel genio del ring che è Mohammad Ali, estasiato dopo aver visto una sua intervista radiofonica alla quale era presente dal vivo, nella stazione radio.
Il più recente omaggio a Gorgeous George viene da una serie televisiva che è iconica a sua volta, I Simpson. Proprio ieri ho visto la puntata 14 della serie 24, “Magnifico nonno” (titolo originale appunto “Gorgeous Grampa”), nel quale si scopre, dopo l’ennesima idea balzana di Homer Simpson, che suo padre, Abraham Simpson, è stato in gioventù il famosissimo e odiatissimo wrestler Glamorous Godfrey, un vero e proprio elogio a Gorgeous George già nelle iniziali.
Il wrestler statunitense da cui I Simpson hanno preso spunto ha avuto un ruolo chiave nel mondo dell’intrattenimento, poiché è stato il primo a portare in scena, nel 1940, una gimmick, in tempi subito successivi alle lotte con gli orsi di cui si parla a volte nel cartone animato “L’uomo tigre” e che in realtà hanno fatto parte del wrestling solo agli albori, quando era strettamente legato ai circhi nei quali si esibivano i giganti contro gli orsi. George portava sul ring il personaggio spocchioso e superiore a tutti gli altri, il perfetto heel.
Se non conoscete Gorgeous George, prima di vedere la puntata in questione vi consiglio di visionare qualche suo filmato e di reperire/chiedermi maggiori informazioni. Se già lo conoscete, eccovi I Simpson in “Gorgeous Grampa”.

I Simpson 24x14 "Gorgeous Grampa" 

domenica 13 aprile 2014

Il viaggio del Guerriero


Tempo fa ho scritto un racconto, poi pubblicato su un’antologia di un’associazione culturale di cui sono socio. Ho riproposto il racconto su questo blog per voi lettori, si tratta de “Il tunnel”, che ha come protagonista un uomo e il suo, diciamo, “incontro” con la bomba atomica lanciata in Giappone alla fine della seconda guerra mondiale. Non vi dico di più, cliccate sul titolo della storia se volete leggerla.
Quelle pagine sono tratte da episodi realmente accaduti, e dimostrano ancora una volta come la realtà spesso superi la fantasia. Purtroppo ciò è successo di nuovo appena pochi giorni fa, con una leggenda del wrestling come Ultimate Warrior. Prendendo spunto dalla realtà, come ho avuto modo di dire anche durante alcune presentazioni del mio libro “Dodici”, si possono tessere storie molto valide, come l’industria di Hollywood ha capito da tempo con i film biografici.
Per Ultimate Warrior, però, la vicenda reale ha un finale molto più triste. La sua vita basterebbe da sola per girarci un film o scriverci un best seller, tra WWF, WCW, abuso di steroidi come da lui stesso confessato e “ritorno alla vita” una volta ripulitosi. Ma gli ultimi giorni di vita di James Hellwig sono quelli più peculiari. In breve, una volta lasciata polemicamente la WWF nel 1996 (seguì una causa che vinse), approdò in WCW nel 1998, probabilmente solo per soddisfare l’ego di Hulk Hogan che voleva batterlo sul ring dopo aver perso contro di lui a Wrestlemania VI nel 1990 (unica sconfitta pulita di Hogan nella WWF), per poi lasciare il wrestling. Nel 2014, dopo quasi 20 anni, decide di tornare in WWE (nuovo nome dell’allora WWF) per essere introdotto nella Hall Of Fame.
In un crescendo velocissimo di emozioni, il 5 aprile si svolge la cerimonia della Hall Of Fame, con lui come star principale. Il 6 va in onda Wrestlemania XXX, nel quale appare sullo stage, mentre il giorno dopo ancora, 7 aprile, compare a Raw per un promo dal sapore profetico, nel quale, tra le altre cose, dice: “Il cuore di un uomo un giorno smetterà di battere, i suoi polmoni esaleranno l'ultimo respiro. E se ciò che quell'uomo ha fatto in vita farà pulsare il sangue nelle vene di altri uomini, la sua essenza diventerà immortale. Lo spirito di Ultimate Warrior vivrà in eterno.
Infine, l’8 aprile, muore a 54 anni. Chi ha parlato con lui gli ultimi giorni, ha descritto un Ultimate Warrior molto affaticato ma anche sereno, che ha cercato di seppellire l’ascia di guerra con tutti coloro con cui aveva litigato, da Vince McMahon ad Hulk Hogan, passando da Jake The Snake Roberts e altri. Forse sentiva avvicinarsi la sua fine, ma come un wrestler ha affermato su Twitter, “gli ultimi giorni era sempre sorridente, se ne è andato in pace con se stesso”. Di sicuro una morte prematura e figlia degli eccessi del passato, ma trovare la serenità non è un traguardo da poco, ed è stata forse la sua più grande vittoria.

sabato 1 marzo 2014

Il tunnel - Parte terza


Qui e qui i due capitoli precedenti del racconto di cui adesso potrete finalmente leggere la fine. So che non vedete l’ora di sapere cosa succede, quindi buona lettura, a fra poco per i saluti.

*****
 
Migliaia di occhi strabuzzati, o almeno così sembrava al giapponese dolorante, lo fissavano. Fu un attimo interminabile. Si sentiva respirare piano, molte bocche sbarrate, mentre nessuno aveva il coraggio di rompere il silenzio.
Molto peggio di come mi ero aspettato, rifletté Tsutomu. Almeno i miei colleghi mi parlavano.
Il presidente parve leggergli nel pensiero, perché esclamò: «Yamaguchi, pensavamo non venisse più. L’avremmo compresa, sia chiaro» si affrettò ad aggiungere, dopo aver capito che poteva aver commesso una gaffe.
Tsutomu si rilassò subito e quasi gli scappò un sorriso: non era curiosità, lo guardavano come se fosse lui il presidente. Tra l’altro, non ricordava quanto tempo prima gli aveva dato del lei l’ultima volta. Probabilmente mai.
«Non potevo mancare. Se volete, arrivo subito al punto: tra riposo e antidolorifici non sono al meglio.»
Questa volta qualcuno dei presenti sorrise, dandogli forza per continuare. Parlò in breve dell’incontro di lavoro, ovviamente saltato, e dell’esperienza vissuta.
«Quanti missili hanno lanciato? Ho letto che la città è rasa al suolo.»
«Uno solo, almeno così mi hanno spiegato.» Dalla reazione dei suoi interlocutori, dedusse che le notizie non circolavano con velocità.
Il silenzio che seguì alla sua affermazione era una cappa pesantissima. Gli impediva di vedere la luce in fondo al tunnel, sempre più vicina (le ultime due dosi di antidolorifico le aveva prese in misura minore rispetto alla prescrizione). Lottò per tornare a fissare la luce abbagliante che significava salvezza, e riprese a parlare: «È bastato quello.»
 
BOCKSCAR arrivò su Nagasaki, e i timori di Sweeney si dimostrarono fondati: le nuvole coprivano anche quella città. «Come siamo messi con il carburante?»
«L’autonomia è minima, maggiore.» Aspettavano tutti il prossimo ordine.
«Non c’è tempo da perdere, procederemo con lo sgancio della bomba usando il radar.»
«Un momento.» La voce sicura dell’addetto al radar spezzò la tensione crescente. «C’è uno spiraglio, lì» disse indicando un punto alla destra del velivolo.
«Va bene, ci basta colpire Nagasaki. Puntiamo quel grande stabilimento, mi sembra un buon obiettivo. Procediamo.» Il comando era stato impartito, il resto fu ordinaria amministrazione, se così si poteva definire il lancio di Fat Man, una bomba di quattro tonnellate e mezza, che avrebbe liberato una potenza di 25 chilotoni.
Mentre il velivolo si allontanava dal bersaglio, il maggiore rimase a guardare allibito la bomba che scendeva a gran velocità. Da quando, pochi giorni prima, il pilota Paul Tibbets aveva sganciato Little Boy sulla città di Hiroshima, aveva un’espressione sgomenta fissa sul volto. Supponeva che fosse il prezzo da pagare.
 
Erano da poco passate le undici nella sala riunioni. Tsutomu Yamaguchi non riusciva a far accettare al direttivo della Mitsubishi l’idea che una singola bomba aveva distrutto una città, la macchina bellica americana non poteva essere così potente.
Alla fine il presidente, fino ad allora molto taciturno, disse: «Comunque sia andata, per fortuna lei è sopravvissuto e ora è qui. A Nagasaki siamo al sicuro anche dalle radiazioni.»
Nel silenzio seguente tutti avvertirono un sibilo nel cielo della città. Si voltarono verso la grande vetrata e videro scendere un oggetto sempre più velocemente. «Cosa...»
Tsutomu Yamaguchi pregò, poi la detonazione mandò in frantumi la finestra e si trovarono distesi a terra, sommersi dai vetri.
Questa volta l’uomo vide il fungo luminoso. Era agghiacciante, ma quando non perse i sensi capì che sarebbe sopravvissuto. Di nuovo.
Doveva ricominciare a percorrere il tunnel dal principio, ma forse questa volta la luce sarebbe stata quella giusta.
 
Charles Sweeney morirà il 16 luglio 2004, all’età di 85 anni.
Paul Tibbets morirà l’1 novembre 2007, a 92 anni.
Tsutomu Yamaguchi morirà a Nagasaki il 4 gennaio 2010, all’età di 94 anni per un cancro allo stomaco, dopo aver scritto un’autobiografia sulla sua esperienza.
 
*****
 
Ci siamo, è finita. Come ho detto nell’introduzione alla prima parte, il racconto è tratto da una storia vera, seppur romanzata in alcuni punti, che potrete trovare sul mio sito ufficiale, a questo link.
Mi ha fatto piacere ripetere l’esperimento fatto anni fa, seppur purtroppo su un blog che non esiste più (altrimenti vi avrei dato tutti i riferimenti per rivivere l’avventura). Spero sia stato lo stesso per voi, lo spero tanto perché se sono qui a scrivervi, è perché voi siete lì a leggermi. Per questo vi ringrazio.
Potrei replicare quest’avventura in futuro, fatemi sapere se avete apprezzato e se vorreste fare un altro viaggio con me.

sabato 15 febbraio 2014

Il tunnel - Parte seconda



Qui trovate la prima parte del mio racconto “Il tunnel”, per cui non mi dilungo in chiacchiere e vi lascio liberi di leggere.

*****
 
Il 9 agosto, il bombardiere B29 Superfortress si preparava alla partenza, con il carico di Fat Man già a bordo. Il maggiore Charles Sweeney aveva ordini precisi, che stava per eseguire non senza remore: ormai conosceva le conseguenze, gli bastava vedere la televisione, cosa che aveva fatto sempre meno negli ultimi giorni.
Radunò l’equipaggio e fece le solite domande. Molti volti erano tirati, si vedeva che come lui avevano mangiato e dormito poco. Non le migliori condizioni per la delicata operazione che si apprestavano a concludere, ma come avrebbero potuto affrontare quella mattina in condizioni ottimali? Per fortuna individuò un paio di elementi più decisi: in patria i giapponesi non erano ben visti e, anzi, ultimamente rappresentavano una minaccia pressante. Avrebbe puntato su di loro, se ce ne fosse stato bisogno, per concludere al meglio la missione.
Ebbe anche tempo per un moto d’orgoglio nei confronti dei suoi uomini, che stavano svolgendo i compiti senza errori. Si ripromise che, una volta lasciatosi quella vicenda alle spalle, avrebbe fatto di tutto pur di assicurargli un futuro tranquillo.
Per quanto riguardava lui, avrebbe volentieri annullato l’operazione anche a costo di essere ucciso, ma in quel caso la morte sarebbe stato l’ultimo problema di cui preoccuparsi. Erano tutti pedine e vittime, non meno dei giapponesi già colpiti così duramente.
 
Tsutomu Yamaguchi si era ripreso in maniera impressionante, e il direttivo, presidente in testa, aveva organizzato una riunione per quella mattina. Non poteva mancare. Con le fasciature ancora in vista, entrò nello stabilimento, diretto alla sala riunioni. Fu una lunghissima camminata nei corridoi: tutti i colleghi lo fermavano, per una (delicata, date le ustioni) pacca sulla spalla, scambiare due parole o solo un sorriso per stemperare la tensione.
In altri contesti, si sarebbe sentito un eroe, ma non voleva esserlo. Voleva anzi che la smettessero di guardarlo così, come un fenomeno da baraccone. Nonostante l’affetto, leggeva in fondo a tutti quegli occhi la voglia di incontrarlo, di incontrare colui che tre giorni prima si era trovato sotto un fungo atomico.
A un tratto si fermò, la gola secca. E se anche i supervisori avessero fatto così? Non credeva di riuscire a sopportarlo.
Bussò alla porta della sala del presidente, mentre i suoi colleghi si dileguavano come per magia.
 
Il bombardiere BOCKSCAR prese il volo e il maggiore Charles Sweeney la parola: «Facciamo in fretta. Tutti ai vostri posti.»
«Maggiore, temo che il cielo su Kokura sia nuvoloso» disse uno dei più giovani, addetto al radar, con il volto concentrato.
«Quando saremo sulla città vedremo. Per ora seguiamo le direttive primarie.» In altri contesti, il ragazzo sarebbe andato incontro a dure conseguenze per il suo timore e l’avventatezza, ma quelli non erano contesti normali, quindi andava bene così. E poi su di lui poteva puntare: era uno dei pochi a essere pienamente convinti della bontà della missione. Gli sarebbe tornato utile.
La recluta comunque aveva ragione: una volta arrivati a Kokura capirono che non potevano sganciare lì la bomba, il cielo era completamente coperto. Avevano atteso anche troppo, giravano inutilmente da diversi minuti sulla città. Sweeney si voltò verso il giovane che aveva parlato poco prima, rendendosi conto che, escluse le poche frasi per aiutare il lavoro del pilota, nessuno aveva aperto bocca. Il ragazzo, concentrato, diede previsioni meteorologiche poco incoraggianti. La scelta toccava al maggiore, che parlò brevemente in radio per confermare i dubbi. Fece un paio di domande all’addetto ai radar che, pur sorpreso nell’essere interpellato, non si scompose e gli diede preziosi consigli. Ora toccava davvero al maggiore.
Pensa, stupido, pensa, si ripeteva mentre decideva il da farsi, un occhio al segnalatore del carburante.
«Non c’è tempo per aspettare, andiamo al bersaglio secondario.» Quello che non disse fu che non sapeva cosa avrebbero fatto se, una volta arrivati, il tempo fosse stato anche lì nuvoloso. Non c’era abbastanza carburante per il piano C.
 
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Anche per questa volta ci fermiamo. Non vedete l’ora di sapere come finisce? Non dovete far altro che cliccare qui.

giovedì 30 gennaio 2014

Il tunnel - Parte prima



Anni fa, su un altro blog ormai defunto, postai un racconto a puntate. Postavo i vari capitoli appena scritti, ovvero senza conoscere ancora nei particolari come sarei andato avanti, e chiedendo consigli ai lettori.
Alcuni utenti furono a dir poco originali nei suggerimenti e diedero alla storia una virata improvvisa. Purtroppo in questo caso non potrò andare avanti bendato e facendomi guidare da voi lettori, prima di tutto perché quello che state per leggere è un mio racconto già pubblicato l’anno scorso in un’antologia, e poi perché tratta una storia vera, per quanto romanzata, e quindi la linea da seguire è già stata tracciata dalla storia.
È uno dei racconti che rileggo con piacere, soddisfatto del risultato. Spero sarà così anche per voi. Buona lettura.

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IL TUNNEL
Paolo Merenda
 
Questo bacio che hai dato non svanirà mai più (Orchestral Manoeuvres in the Dark)
 
 
Ci sono gallerie che restano buie. Non importa quanta potenza sprigionino i fari delle vetture che le attraversano: in alcune gallerie l’unica luce è quella che si vede lontana, all’uscita.
Tsutomu Yamaguchi giaceva in un letto d’emergenza, con gravi ustioni sul lato sinistro del corpo, ma poteva sorridere. Da poche ore aveva ricominciato a vedere. Sì, l’esplosione lo aveva anche accecato, ed era stata così forte da fargli temere di aver perso l’uso degli occhi. I medici lo avevano rassicurato, ma se ci si trova in un nascondiglio antiaereo, bloccato a letto, dopo una simile esperienza, non si ripone molta fiducia in nulla.
Non lo avevano rassicurato sulle conseguenze a lungo termine, però. Nemmeno ci avevano provato, il che paradossalmente gli dava una flebile speranza sulle ustioni, che forse sarebbero sul serio guarite.
Ora che aveva gli occhi per farlo, la luce in fondo al tunnel sembrava più vicina, di pochi passi ma indubbiamente più vicina.
Moltissime altre persone, un soldato si era fatto scappare l’inconcepibile numero di 130.000, non potevano dire la stessa cosa, anzi non avrebbero potuto dire più nulla. Tsutomu invece ci si era ritrovato dentro per caso, arrivato da poco a Hiroshima per lavoro.
Quella stessa mattina, il 6 agosto, appena poche ore prima, aveva un appuntamento per conto della Mitsubishi Heavy Industries. Era stato inviato dai supervisori in quanto progettista di petroliere, uno dei più bravi in seno all’industria, in una delle città all’avanguardia in tal senso. Non ricordava più nulla della sveglia, della colazione e del resto, fino all’autobus, dove la sua vita era cambiata.
Stava scendendo dal tram, questo lo ricordava, e ricordava anche le due persone che, evidentemente più frettolose di lui, lo avevano superato nella inevitabile corsa alle porte. Poi una luce fortissima, un boato terrificante e si era ritrovato all’interno del mezzo, incastrato tra due sedili. Le due persone frettolose erano spalmate sui finestrini: l’onda d’urto le aveva sbalzate indietro, ma trovandosi pochi passi più avanti si erano letteralmente aperte battendo la schiena contro le portiere che stavano per richiudersi.
Mentre perdeva i sensi, molto più in alto Paul Tibbets si rendeva conto delle conseguenze dell’azione. Il colonnello era partito con il suo equipaggio, a bordo del velivolo Enola Gay, per sganciare Little Boy su Hiroshima. Un lavoro come un altro in seno all’esercito, che ad alcuni elementi a bordo del Boeing B-29 andava più che bene, pur di farla pagare ai giapponesi. A lui non interessava tutto questo: era un militare e aveva una missione da compiere. Punto.
Ma nel momento in cui l’ordigno atomico esplodeva, lui vide. La voce fu poco più che un sussurro: «Mio Dio, cosa abbiamo fatto!»
 
La mattina successiva, nonostante il parere contrario dei medici e dei soldati, partì per la sede centrale della Mitsubishi, lasciando la distruzione portata dalla bomba atomica a Hiroshima.
Non poteva restare, non solo per il fallout nucleare, ma perché non avrebbe resistito un’altra notte in quel locale zeppo di feriti.
I suoi occhi funzionavano ormai abbastanza bene, stava camminando a forte velocità nel tunnel, verso l’uscita. Ecco, non voleva ammetterlo ma aveva centrato il punto: doveva ripartire, muoversi, tornando a una vita normale, per quanto possibile. E non lo avrebbe fatto restando in un letto fatiscente, ascoltando gli altri feriti che si lamentavano e che morivano. No, era un sopravvissuto, e voleva continuare a esserlo.
Lui, Tsutomu Yamaguchi, avrebbe voltato pagina. Sorrise al pensiero, fin quando la pelle sotto il mento si tirò troppo e gli fece male alle bruciature, ben fasciate e protette.
Si avviò verso la stazione mentre cercava un giornale, anche se dopo pochi passi rinunciò: gli bastava seguire i discorsi dei pochi civili nelle vicinanze, la versione giapponese dei morti viventi. Settantamila, centomila, centoventimila morti, un fungo atomico largo sei chilometri, ce n’era abbastanza per non voler leggere più nulla sull’argomento. Chissà, forse un giorno avrebbe scritto un libro sulla sua esperienza, anche se non aveva visto il fungo e in effetti non sapeva praticamente nulla di ciò che era successo. Ci si era “solo” trovato dentro.
A volte non serve sapere troppo, anzi è meglio il contrario. Quali sarebbero state le conseguenze per Hiroshima? E per gli altri sopravvissuti? Per lui?
Partì, senza temere nulla. Aveva già oltrepassato l’inferno.

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Per ora abbiamo finito, spero stiate apprezzando. Se volete continuare la lettura qui trovate la seconda parte.