domenica 6 dicembre 2015

Come mi sono procurato un albo di Dylan Dog - Opera teatrale in quattro atti


PROLOGO
Qualche giorno fa, in allegato con la Gazzetta dello Sport, è uscito il diciottesimo numero di una serie su Dylan Dog, dal titolo “Tagli aziendali”, colorato da un’amica, Ketty Formaggio, che ha realizzato anche i colori della copertina del mio libro “Dodici”. Questo pezzo non vuole essere pubblicitario (non meramente, almeno), ma tratterà le peripezie passate per averlo.
 

Primo atto o incontro con l’Edicolante Di Fiducia (da ora, EDF), ovvero Sondare il Terreno.
Io: Salve, EDF. Vorrei acquistare la Gazzetta dello Sport, o meglio l’allegato in vendita da oggi, l’albo a colori di Dylan Dog.
EDF: Salve, Io. Purtroppo ne ho due, sono entrambi prenotati, passeranno sicuramente a prenderlo. Posso vedere se riesco a procurartelo.
Io: Ottimo, passo tra qualche giorno. Ci tengo, l’ha colorato un’amica.
EDF: Non preoccuparti, ci penso me.

Secondo atto o incontro con EDF, ovvero Primi Dubbi.
Io: Salve, EDF. Son passati tre giorni, hai novità riguardo l’albo di Dylan Dog?
EDF: Salve, Io. I due che l’hanno prenotato sono passati a prenderlo.
Io: Va be’, non avevo pensato a quelli. Mi avevi detto che saresti riuscito a procurarmelo in altri modi.
EDF: In questi casi ho un amico che va a chiedere alle altre edicole, vedo se lo trova. Se non lo trova prendo una copia direttamente dal distributore. Tre giorni altri al massimo e l’avrò.
Io: A dire il vero ho chiesto inutilmente anche a un altro paio di Edicolanti, seppur non Di Fiducia, temo che non l’abbia nessuno. Comunque ti avevo detto di procurarmelo, l’avrei acquistato certamente. Il tuo amico ha chiesto in giro?
EDF: No.
Io: E perché, scusa?
EDF: Non ancora. Oggi o domani gli faccio fare un controllo e poi ti dico. Lasciami il numero di cellulare.
Io: Ok. Eccolo, lo scrivo su un foglio che ti porgo così non devo recitarlo e i lettori del blog non lo leggeranno. Sai, la privacy... Chiamami quando hai il fumetto.

Terzo atto o incontro, ovvero Ma Cosa...
Io: Salve, EDF. Sono passati quattro giorni, non mi hai chiamato. Deduco che tu non sia riuscito a procurarti il fumetto di Dylan Dog.
EDF: Salve, Io. In giro per il paese non lo ha nessun Edicolante.
Io: Te l’avevo detto, uno di loro mi ha spiegato che essendo oltre la metà della collezione, i numeri arrivano ormai contati in base alle prenotazioni precedenti. Hai quindi chiesto al distributore per prenotarne una copia, vero?
EDF: No.
Io: E perché, scusa?
EDF: Lo prenoto subito.
Io: Ti avevo detto di prenderlo senza indugio. Come mai non l’hai... Va be’, quanto ci mette ad arrivare?
EDF: Nel frattempo è diventato un numero vecchio, ora in edicola c’è l’uscita 19. Direi un paio di giorni ed è qui.
Io: Perfetto, chiamami appena ce l’hai che passo a prenderlo. Ci tengo, passo appena mi contatti, un minuto nella stessa giornata lo trovo.

Quarto atto o incontro, ovvero La Degna Conclusione.
Io: Salve, EDF. Sono passati sei giorni, ci sono problemi con la copia arretrata di “Tagli aziendali”?
EDF: Salve, Io. No, eccolo! (me lo porge con un sorriso a 32 denti)
Io: Oh, finalmente! Per fortuna che son passato oggi, è arrivato da pochi minuti?
EDF: No, due giorni fa.
Io: E perché, scusa, non mi hai chiamato prima?
EDF: ...


EPILOGO
Quindi sono riuscito a leggerlo. La storia è carina e richiama un vecchio albo della serie regolare, un amarcord che ho molto apprezzato. Ma l’opera fatta sui colori è sublime, un esempio su tutti il cambio dalle pagine 8 e 9, con una sala operatoria asettica, alle pagine 10 e 11, esterno, notte, tonalità buie e fredde, alle pagine 12 a 13, con il cambio diametrale dell’interno di una casa in cui avverti fisicamente il calore delle scene.
Ok, forse l’epilogo è quasi pubblicitario, ma sentivo di doverlo scrivere. Se volete procurarvi l’albo, potete andare tranquillamente da EDF: ci metterà un po’ ma ve lo procurerà.

domenica 29 novembre 2015

Undertaker, 25 anni di distruzione



Il 22 novembre 1990, nella squadra di un’altra leggenda, Million Dollar Man, Ted Di Biase, esordiva in WWE (allora WWF) la Leggenda per eccellenza, The Undertaker. Sono passati 25 anni e i bambini del pubblico che lo vedono passare non scoppiano più a piangere, come succedeva allora, ma alcune cose sono rimaste immutate.
In questi giorni i suoi due episodi legati al PPV Survivor Series (evento di wrestling definito tra i quattro maggiori dell’anno), il debutto nel 1990 e la vittoria del primo titolo del 1991, sono diventati tre con il match, in coppia con il fratello (in storyline) Kane, riformando i Brothers of Destruction, contro Bray Wyatt e Luke Harper, ovvero metà della Wyatt Family. Sono d’accordo con quanto fatto dalla prima federazione mondiale di wrestling, ovvero far affrontare a due atleti dalla gimmick molto dark, come Undertaker e Kane (non a caso ribattezzati Brothers of Destruction), metà di una stable altrettanto controversa e oscura come la Wyatt Family, che richiama già nel nome la Manson Family di Charles Manson, uno dei criminali più famosi della storia recente.
L’idea, ottima, non ha trovato riscontro sul ring, dopo il gong: nonostante la scelta dell’incontro tag team che ha permesso al Deadman di rifiatare quando a lottare vi era Kane, a 50 anni non ha potuto mantenere la stessa intensità di 20, ma anche 10 anni fa. È stata una passerella e poco più, con annessa ovvia vittoria e l’esecuzione dell’Old School, la Chokeslam, la Tombstone e le altre mosse che lo hanno reso famoso, ma devo dire che per me è stato lo stesso un grande spettacolo. Perché è quello che mi attendevo e che molti, credo, si attendevano: per il match tecnico aspetto il ritorno sul ring di Daniel Bryan, da Mark Calaway voglio solo che si trasformi in Undertaker.
Anche quando è a Wrestlemania, con il suo record di vittorie consecutive, o quando l’ho visto in un house show, un evento non trasmesso in TV (la foto allegata al pezzo viene appunto da lì, l’ho scattata io), attendevo la tecnica dal maestro Chris Benoit, e non sono stato smentito, mentre il Becchino è stato uno spettacolo già dall’ingresso.
Certo, ormai si naviga a vista perché non può più assicurare la continuità degli altri atleti e progetti a lungo termine, ma una cosa è certa: con lui sul ring, qualcosa di notevole prima o poi succede.

domenica 18 ottobre 2015

Dove stiamo andando non c’è bisogno di strade!


Tra pochi giorni ricorrerà il trentesimo anniversario di “Ritorno al futuro”, o meglio la data esatta, il 21 ottobre 2015, nella quale Marty McFly e “DocEmmett Brown giungono nel futuro nel secondo capitolo dell’indimenticata trilogia.
La serie di film, considerata la madre di tutte le pellicole sui viaggi nel tempo, verrà festeggiata nei modi più disparati in ogni angolo del globo, e questo basterebbe a far capire quanto sia rimasta nell’immaginario collettivo. Ma perché ha avuto così tanto successo?
Dal mio punto di vista, perché in questi film c’è tutto: suspance per le corse contro il tempo (è il caso di dirlo) alla fine di ogni storia, amori impossibili, redenzione (ben delineata al termine del primo e del terzo capitolo) e molto altro. I personaggi principali, Michael J. Fox e Christopher Lloyd, ma anche Lea Thompson nel ruolo di Lorraine, madre di Marty, e Thomas F. Wilson nel ruolo di Biff, sono semplicemente perfetti. Anzi, uno dei tanti interrogativi è: ora ne staremmo parlando se l’attore scelto originariamente per Marty, Eric Stoltz, non fosse stato sostituito da Michael J. Fox dopo sei settimane perché, a detta del regista Robert Zemeckis, mancava di ironia?
Trovo che nessuno degli altri film sui viaggi nel tempo, e ce ne sono parecchi (giusto per nominarne alcuni, Source code, Predestination, The butterfly effect, L’esercito delle 12 scimmie, Looper, Donnie Darko e anche Terminator con un magistrale Arnold Schwarzenegger) sia così completo: o mancano di ironia, o di complessità della storia (“Ritorno al futuro 2” è addirittura cervellotico in tal senso), o altro ancora. La trilogia con al centro la DeLorean riesce ad amalgamare tutto ciò, e se ancora oggi si parla di un eventuale quarto capitolo un motivo ci sarà.
Il quarto capitolo, appunto. Secondo voi è giusto farlo? Christopher Lloyd si è detto disponibile, se lo sarà anche Michael J. Fox. Per il primo invero basterebbe una parrucca e del trucco, il secondo ha già recitato da quando è stato colpito dal morbo di Parkinson e comunque non è cambiato molto, ma voi cosa ne pensate?

lunedì 28 settembre 2015

Concorso letterario sotto l’albero di Natale


In questi giorni sono stato invitato personalmente al concorso letterario di cui allego l’immagine, copiata dal gruppo Facebook “Casa Editrice Montecovello”. Non è detto che io riesca a partecipare a «Racconti per il Natale», ma ci tenterò per una serie di ragioni.
Innanzitutto per la persona che mi ha sponsorizzato, che crede nelle mie capacità come scrittore, e che ringrazio per la fiducia. Poi perché si tratta di un concorso letterario gratuito: a memoria, non ho mai partecipato a un concorso letterario che prevedesse una quota di partecipazione, e per alcuni parliamo anche di 20 euro, in pratica compri lo spazio sul libro in cui saranno contenuti i racconti. Infine, per il genere a cui mi devo attenere, una sfida dato che non ho mai scritto fiabe o racconti natalizi, se si eccettua un racconto “giovanile” su uno strano killer natalizio, storia che alla fine prende una piega soprannaturale.
La vedo dura, non solo per il genere, ma anche per la scadenza, fine ottobre, perché in questo periodo ho parecchia carne sul fuoco: sto lavorando al prosieguo di “Capsicum”, racconto, con al centro un peperoncino allucinogeno, che in questi giorni è stato finalmente pubblicato sulla rivista annuale dell’associazione culturale di cui sono onorato di fare parte, inoltre dopo vari cortometraggi realizzati in passato, sto pensando di farne un altro dato che ho in mente l’idea giusta. Trovo che un cortometraggio, senza grossi investimenti, sia più difficile da creare rispetto a un racconto o un romanzo: scrivere “il drago minacciava la principessa nella torre del castello” è facile, filmare un drago che minaccia una principessa (nella torre di un castello) un po’ meno. Per inciso, se avessi a disposizione un drago non lo userei per girarci un cortometraggio.
In ogni caso, vi invito a partecipare al concorso letterario «Racconti per il Natale», è un’ottima occasione per proporre a persone competenti una storia (o un saggio), e capire a che livello ci si trova nel mondo della scrittura. Pertanto, non mi resta che augurarvi “in bocca al lupo!” (o al drago, se preferite).

giovedì 27 agosto 2015

L'epicità di Dave Grohl


I Nirvana hanno fatto la storia del grunge e della musica, e Kurt Cobain resta una delle stelle più luminose in questo campo. Nulla da eccepire su questo assunto, ma a completare la formazione dei Nirvana c’erano anche Krist Novoselic e Dave Grohl.
Il primo, nel dopo-Nirvana, ha collaborato con band non di primo livello e inoltre si è dato alla politica. Il secondo sapete tutti chi è, ma forse non sapete tutti cosa sta facendo ultimamente. Perché il frontman dei Foo Fighters è sulla cresta dell’onda, a volte anche contro la propria volontà, come per la rottura del perone.
Ora, è doverosa da parte mia una precisazione: “foo fighters”, durante la seconda guerra mondiale, era il nome che i piloti aerei davano agli avvistamenti di UFO, per cui quello (mi piace pensare che ci siano altre forme di vita e mi documento in tal senso) e il fatto che la band fosse nata da una costola dei Nirvana, mi ha dato buone motivazioni per seguirli fin dal primo momento.
Tornando a, come da titolo, l’epicità di Dave Grohl, con il passare del tempo si sta ritagliando uno spazio nel panorama rock di tutto rispetto, anche se il recente inizio è datato a mio avviso metà giugno, quando durante un concerto a Göteborg, in Svezia, è riuscito a rompersi il perone durante uno dei suoi energici salti. Prima di andare in ospedale, ha comunicato ai fan che sarebbe tornato, promessa mantenuta dato che alla fine si è palesato sul palco, con tanto di paramedici al seguito che gli tenevano il gesso fermo. Per non saltare date successive, poi, si è fatto costruire un trono di chitarre che nulla ha da invidiare a quello di spade del telefilm.
A inizio agosto, poi, è stata realizzata e filmata la cover di “Learn to Fly” dal collettivo Rockin1000, nato dalla band ufficiale italiana dei Foo Fighters per portare il gruppo del carismatico Grohl a Cesena. Cercatela su youtube se non avete fatto come i 24 milioni di persone che hanno già visionato l’esibizione in poco meno di un mese. Nella ricerca su youtube, potreste imbattervi nella risposta del Nostro, in italiano, che promette di esibirsi con i Foo Fighters a Cesena. Inoltre, successivamente ha invitato tutti e 1000 i musicisti al backstage di un suo concerto, ma solo in tre hanno risposto. La security del concerto ringrazia vivamente.
Con i fari ormai puntati sull’ex batterista dei Nirvana, fa notizia anche che porti un fan sul palco dopo che lo vede commuoversi fra il pubblico, lasciandogli anche il posto sul suo trono da eventi live. Oppure che irrompa con un pick-up in una manifestazione anti-gay della Westboro Baptist Church, con cui pare abbia un conto aperto, e si faccia notare per slogan gay-friendly.
Ovviamente, il fenomeno virale ha assunto dei connotati comici, come testimoniano alcuni commenti sui social network: “Che hanno fatto di bello oggi i Foo Fighters? Hanno salvato un gattino puccioso da un alligatore uccidendo il rettile a mani nude? Hanno picchiato Beef che si voleva trombare la mamma di McFly? No, perché c’ho un rubinetto che perde in cucina e al momento sono indeciso se chiedere aiuto all’idraulico o a Dave Grohl”. Nuovissima, poi, la pagina “I Foo Fighters che fanno cose buone”, in cui vengono ipotizzate buone azioni che potrebbe compiere il gruppo capitanato da Dave Grohl.
In effetti sono curioso anche io: cosa farà oggi il nostro eroe? Scherzi a parte, quando si terrà il concerto di Cesena, farò di tutto per esserci, perché sono sicuro che “Learn to Fly” sarà ancor più epica del solito.

domenica 19 luglio 2015

Caparezza il Veggente


Pochi giorni fa ho terminato il libro di Caparezza, “Saghe mentali”. Lettura interessante, anche se a parer mio perde mordente nella quarta parte, che toglie qualcosa al quarto album, “Le dimensioni del mio caos”. Le altre tre, invece, sono sì ironiche ma, specialmente la prima in cui parla della sua vita precedente alla trasformazione in Caparezza, sono assolutamente godibili.
Scrivo questo post perché ho trovato un passaggio a dir poco profetico. La seconda parte dell’opera, dedicata all’album “Verità supposte”, accompagna ogni canzone a una fiaba, ovviamente scritta nel suo stile graffiante e leggero al tempo stesso. La favola che accompagna il terzo brano, “La legge dell’ortica”, si apre con lo stralcio che riporto qui.
 
“C’era una volta, tanto e tanto tempo fa, uno SCRITTORE ATTEMPATO DI NESSUN SUCCESSO.
Viveva una vita GRIGIA, fatta solo di SFUMATURE, senza che il suo grigiore si avvicinasse mai al bianco né al nero. GRIGIO e basta.
Ormai assuefatto al suo grigiore, lo scrittore attempato di nessun successo decise di dare alle stampe un libro che parlasse di amori adolescenziali tra ragazze romantiche e bulletti rissosi.
Essendo questa una fiaba, non ci è dato sapere del perché di questa sua scelta.
Ed essendo questa una fiaba, e non un racconto realistico, il libro, scritto con un linguaggio sciatto e poco letterario, diventò un bestseller.
Di più: il successo del libro fu immediato, talmente immediato da non permettere allo scrittore attempato di nessun successo di adeguarsi al suo nuovo status di scrittore attempato di successo.
La fama lo regalò al mondo con la faccia e il fisico di un autore attempato, la pancetta e la pelata in bella evidenza, e con un’improbabile voce nasale, come un Eros Ramazzotti affetto da sinusite.”
 
Le parole in maiuscolo sono una mia aggiunta, e il motivo è semplice. Caparezza ha pubblicato questo libro nel 2008, e parla ovviamente di “Tre metri sopra il cielo” di Federico Moccia, del 2004. Ma le somiglianze con “50 sfumature di grigio” di E. L. James, del 2011, sono strabilianti, e vanno oltre ai termini usati che rimandano al titolo: scrittrice attempata di nessun successo (Moccia, nato nel 1963, si fa conoscere dal grande pubblico nel 2004, mentre E. L. James, nata sempre nel 1963, nel 2011), una storia che parla di amori (in questo caso anche di sesso, ma più o meno ci siamo) tra ragazze romantiche e bulletti rissosi, linguaggio sciatto e poco letterario (i romanzi di E. L. James sfruttano un vocabolario davvero ridotto all’osso), autrice che arriva al successo così velocemente da non riuscire a eliminare la pancetta per le prime foto da “celebrità”.
La domanda che mi e vi pongo è: Caparezza è un veggente o i motivi che rendono un libro di successo risiedono al di là dell’effettiva bellezza di un’opera, tanto che si possono prevedere altri casi simili in futuro?

domenica 14 giugno 2015

Bisogna saper perdere


Chi segue con assiduità questo blog, sa che in qualche intervento ho narrato le mie gesta eroiche, come quella che mi ha fatto diventare leggenda all’università. Ma nessun supereroe vince sempre, e quindi oggi voglio narrarvi di una grossa sconfitta, anche se per demeriti non miei.
Ma andiamo con ordine. Qualche settimana fa decido di andare a far visita a un mio familiare che vive nella parte alta dell’Italia. Pochi giorni di relax al Nord, festicciuole e così via. Un giorno, dopo mattinata per boschi, pranzo in agriturismo e altro giretto pomeridiano, la fotocamera si scarica. Di conseguenza la metto a caricare e mi preparo per l’uscita serale in un bar della zona, dove c’è un mojito party, tanto non ho altre foto da fare.
Mai decisione fu più sbagliata, poiché questo bar era stato comprato anni prima da Fernando De Napoli, calciatore che (elenco, spero, solo per i più piccoli) tra le altre cose, ha giocato il mondiale 1986, quello 1990 in Italia con la nazionale italiana giunta terza, ha all’attivo 54 presenze in Nazionale, 2 scudetti vinti con il Milan e 2 con il Napoli, dove giocava in squadra con Diego Armando Maradona, 1 Coppa Italia, 3 Supercoppe italiane, 1 Coppa UEFA, 1 Coppa Campioni e 1 Supercoppa UEFA.
Avevo anche chiesto al mio parente se al bar avremmo incontrato il celebre ex calciatore del Napoli, ma lui mi aveva detto che De Napoli andava al suo bar solo una volta al mese per una serata ben definita, e quindi non avevo motivo per non credergli. Comunque, mi trovo al bar, fila interminabile per arrivare al bancone e ordinare il tanto sospirato mojito prima di diventare troppo anziano per poterne bere uno senza problemi renali. Il mio parente mi fa: «Un momento, vedo se c’è De Napoli, il suo tavolo è sempre lo stesso, ci metto un attimo».
Ora, dovete sapere che il familiare in questione, durante le feste, sarebbe capace di fermarsi a parlare con Arnold Schwarzenegger, senza il minimo timore e senza calcolare il fatto che non saprebbe farsi capire al meglio in inglese.
A ogni modo, torna portandosi dietro proprio Fernando De Napoli. Io rimango tipo statua (sono un supereroe, prima o poi dovranno farmi una statua, quindi mi porto avanti col lavoro), poi il mio familiare, rivolgendosi al calciatore: «Fernando, il mio parente non credeva che saresti venuto stasera! Te lo presento!» E De Napoli si ferma a parlare con me mezzo minuto, poi mi dice: «Scusami ma ora devo andare a controllare alcune cose per la serata. Ma facciamo così: non mi trattengo molto, se fai in tempo sono al mio tavolo e beviamo un mojito insieme.»
Io prendo da parte il mio familiare, gli sussurro: «Non doveva venire stasera, già. Ora mi aspetti qui, volo a casa, prendo la fotocamera ormai abbastanza carica e torno. Tu fai la fila per me, ci vediamo tra pochissimo.»
Volo giustappunto a casa del parente che mi ospita, poche centinaia di metri, tre o quattro minuti a piedi. Prendo la fotocamera e, ben più fiducioso, mi riavvio al bar, pensando alle foto di me con De Napoli mentre sorseggiamo un cocktail e facciamo battute sui suoi avversari, per passare magari a parlare di Maradona. Ma ogni supereroe ha la sua nemesi: nel mio caso i carabinieri, che mi fermano all’uscita di un vicolo che ho attraversato per risparmiare tempo. Non dico armi in pugno, ma quasi (dovevano aver capito che ho superpoteri), mi chiedono cosa ci faccia lì, chi io sia e altro, per poi chiedermi i documenti. Spiego ai due nella volante di chi sono ospite (è un paese piccolo, confido nel fatto che, conoscendosi tutti, mi lasceranno andare) ma mi tengono lo stesso venti minuti tra accertamenti, controlli, esclusa la palpazione del contenuto delle mie tasche. Per la cronaca, avrebbero trovato un cellulare, la fotocamera, le chiavi e i soldi. Stop.
Mezz’ora abbondante dopo, riesco ad arrivare al bar. Il mio familiare mi chiede come mai ho fatto così tardi, ma ha il mojito, evvai! Gli chiedo quale sia il tavolo del mio futuro fraterno amico Fernando De Napoli, e lui me lo indica. Ma... Il calciatore non c’è. Chiediamo a un cameriere, e dice che è andato via da pochi minuti.
Bevo mesto il mojito dal sapore ormai amaro. Ma un supereroe è come Chuck Norris: non perde, rimanda la vittoria. So dove e quando trovare il calciatore, prima o poi berrò con lui. Sempre che non venga arrestato prima per aver camminato con sospetto nei vicoli sospettosi.

lunedì 25 maggio 2015

"The Simpson Ride" made in Hollywood


È di questi giorni la notizia dell’inaugurazione di “The Simpson Ride”, già ribattezzato “Springfield”, a Hollywood, in California. Si tratta di un parco giochi a tema Simpson, con la cittadina di Springfield riprodotta in ogni suo particolare. Si va dalla taverna di Boe, alla casa di Cletus (nel parco giochi un Irish pub), alla scuola in cui Bart e Lisa studiano, alla centrale nucleare e così via.
La cosa che mi ha colpito del parco giochi di Los Angeles, partito come idea nel 2008 a Orlando, negli Universal Studios (lì a sondare il terreno furono delle montagne russe a tema Krustyland), è la similitudine con Disneyland, creatura di Walt Disney. Topolino nacque infatti nel 1928 e Disneyland, complice forse la seconda guerra mondiale, nel 1955, 27 anni dopo. I Simpson hanno esordito in TV nel 1989 e “The Simpson Ride” nel 2015, 26 anni dopo. 26 stagioni, circa 600 episodi, il Time Magazine che lo ha dichiarato “la miglior serie televisiva del secolo”, una stella nella Walk Of Fame di Hollywood, e premi che sarebbe impossibile elencare.
I Simpson hanno di fatto cambiato la storia della televisione, e un parco giochi era quasi un atto dovuto.
Tutto è studiato fin nei minimi dettagli, dal fumo (innocuo) che esce dalle ciminiere della centrale nucleare, al Jet Market di Apu nel quale si possono acquistare souvenir, al Krusty Burger dove, introdotti da Krusty il Clown, si possono mangiare gli hamburger descritti nel cartone animato e così via. Un’operazione commerciale partita sicuramente meglio di Disneyland (Walt Disney si indebitò per creare l’intrattenimento al suo interno, e solo successivamente guadagnò grazie a esso una fortuna), ma che ha le carte in regola per diventare leggendario quanto il parco giochi introdotto dal simbolo di Topolino. A “Springfield” i faccioni di Homer, Marge, Bart, Lisa e Maggie Simpson salutano i numerosissimi visitatori e portano in un attimo nella serie televisiva. Con tanto di Serpente o Telespalla Bob, due personaggi dalla matrice più controversa (il primo è un rapinatore, il secondo tenta di uccidere Bart Simpson a ogni sua apparizione), che possono palesarsi d’improvviso e portare un felice scompiglio nelle famiglie che visitano il parco.
Un lavoro non da poco, a mio avviso, e che merita di essere visitato.

mercoledì 29 aprile 2015

Boscimani, una tribù "primitiva"


In questi giorni sto leggendo un libro molto interessante, “Storia dello zucchero” dell’antropologo Sidney Wilfred Mintz. Nelle prime pagine, l’ormai 92enne originario del New Jersey riporta un esempio di come nella primitiva tribù dei Boscimani !Kung si divide il cibo, a sua volta citando Lorna Marshall. Una delle prime tribù a stanziarsi in Africa, e ancora presente in Namibia, divide equamente e mangia una preda appena essa viene catturata. In questo modo, “Se vi è fame, è vicendevolmente condivisa. Non ci sono coloro che hanno e coloro che non hanno. Una persona non è mai sola, l’idea di mangiare in solitudine e non condividere è sconvolgente.” Viene anche spiegato che la prima freccia a colpire la preda viene premiata, ovvero un pezzo di carne più grande va al cacciatore che ha scoccato la freccia in grado di ferire l'animale, un pezzo va anche alla moglie e ai parenti prossimi, per poi arrivare a tutti gli altri membri della tribù seguendo l’organizzazione interna del gruppo.
Mi sono chiesto come si può giudicare una simile caratteristica, presente in un popolo “primitivo”, e che il mondo occidentale ha ormai perso. L’equità della distribuzione del cibo, applicata in posti in cui la forbice tra ricchi e poveri è ampia, potrebbe livellare tutto e salvare dai morsi della fame, e da molto peggio, coloro che non riescono a mangiare. Ovvio che elementi come gli sforzi fatti per raggiungere un alto grado sociale fanno, anzi devono fare la loro parte, ma non per questo una fetta più o meno grande di persone deve trovarsi senza nulla.
Quindi, viene infine da chiedermi, dove e come si è perso tutto ciò? Dove e quando i bisogni di uno hanno prevalso sui bisogni della comunità? La decodificazione degli atteggiamenti delle tribù primitive potrebbe essere la chiave per una rinascita della razza umana, che altrimenti sembra avviarsi a periodi ancor meno floridi?

domenica 29 marzo 2015

El Hijo del Perro Aguayo (1979-2015)


Sono passati otto giorni dalla morte del wrestler messicano El Hijo del Perro Aguayo, su un ring della federazione messicana CRASH, e solo ora si comincia a far chiarezza su cosa sia effettivamente successo.
Innanzitutto, bisogna dire che purtroppo gravi infortuni o decessi sul ring non sono mai mancati in questa disciplina, non foss’altro che il corpo in questi casi è spinto al limite, le evoluzioni sul ring mettono a dura prova il fisico. La morte del 35enne messicano, però, ha fatto molto più scalpore per la presenza sul ring, con lui, di Rey Mysterio, il già noto “folletto di San Diego” che ha combattuto in ECW e WWE. Molti sono i punti ancora oscuri, come il ritardo dei soccorsi o se effettivamente Pedro Aguayo Ramírez, questo il suo vero nome, potesse essere salvato, ma voglio concentrarmi sull’incidente in sé e su un dubbio, lecito.
Partendo dalla botta subita, alla fine del pezzo ho inserito un brevissimo filmato con un drop kick di AJ Styles (su Sting, uno dei protagonisti di Wrestlemania 31). Non ho inserito filmati inerenti la tragedia per scelta, è solo esemplificativo. In pratica Rey Mysterio lo colpisce con un drop kick (in vista della sua famosa 619, che però in questa vicenda non sfiora nemmeno l’avversario, quindi va esclusa dalla dinamica), una mossa “finta”, nel senso che è così leggera che la reazione normale in un match, cadere, è voluta dalla persona che subisce il colpo, anche se teoricamente potrebbe restare in piedi. Se fatto bene (come in questo caso, ho visto i video) viene toccata la spalla, che con i suoi muscoli assorbe completamente il tutto. El Hijo del Perro Aguayo quindi cade sulle corde, ma non alza abbastanza le braccia per, in pratica, ricevere il contraccolpo sulla zona degli avambracci. A toccare le corde è la trachea, lo stesso contraccolpo va sulla gola e gli si fratturano tre vertebre cervicali. A mio avviso, fin da subito non ha avuto speranza di salvarsi, forse qualcuna (minima) di finire in sedia a rotelle con un respiratore attaccato a vita.
Il dubbio che ho quindi è: quali erano le sue condizioni fisiche PRIMA dell’incidente? Non è stato l'unico a cadere male con la trachea sulle corde e non sarà l’ultimo, ma se Rey Mysterio facesse mille altri drop kick con relativo crollo per preparare la 619, l’avversario non riporterebbe nessun danno. Una fatalità che poteva capitare a chiunque (in Messico e altrove la 619, con altri nomi, viene fatta da numerosi atleti), sono quindi felice che Rey non voglia ritirarsi in seguito alla vicenda come si era detto qualche giorno fa.
Ci sarebbe un altro tema da toccare: come la stampa italiana e internazionale ha trattato la morte di El Hijo del Perro Aguayo. Nominare Rey Mysterio va bene, è il nome che attacca i lettori alla notizia, il modo in cui molti lo hanno fatto denota completa ignoranza della disciplina, e molto pregiudizio. Nessuno ha ucciso El Hijo del Perro Aguayo, per fortuna altri giornali e siti hanno fatto corretta informazione e volendo si può capire come siano andate le cose.
 

venerdì 27 febbraio 2015

Dottor Spock, la leggenda


Proprio oggi pomeriggio, su Internet, ho trovato la foto che accompagna questo pezzo, poche ore prima della triste notizia: scattata presumibilmente nel 2012, quando Leonard Nimoy ha prestato la voce al suo modellino del dottor Spock di Sheldon Cooper, raffigura il cast del noto telefilm “The Big Bang Theory” in un momento di pausa, in compagnia dell’attore 83enne scomparso oggi.
Non ho seguito bene la serie che lo ha consegnato alla storia, “Star Trek”, dandogli un successo interplanetario, ma ho visto l’intera serie “Fringe”, dove figurava come personaggio cruciale tra i due mondi e dove, a mio modo di vedere, si è fatto notare per le doti recitative, grazie anche a un personaggio che gli si addiceva come non mai.
La sua carriera, come è facilmente intuibile, è stata davvero lunga, ed è cominciata nel 1951, ben 63 anni fa, e ancora nel 2013 si è concesso un cameo nel film “Into Darkness - Star Trek”, diretto da J. J. Abrams, che a sua volta ha diretto anche le serie televisive “Lost” e appunto “Fringe”. Credo che abbia sì legato il suo nome alla fantascienza, ma solo perché si è trovato al posto giusto al momento giusto: non ha interpretato il ruolo del dottor Spock, ma lo è diventato, un po’ come Kathy Bates è diventata Annie Wilkes in “Misery non deve morire”, o Jack Nicholson che si è trasformato nel Jack Torrance di “Shining” del maestro Stanley Kubrick. Si vede quando qualcuno crede così tanto nel suo personaggio da trasformarsi del tutto.
Lo stesso accade a Jim Parsons, nel suo passaggio a Sheldon Cooper. E a proposito di “The Big Bang Theory”, mi piacerebbe che venisse ricordato in qualche modo, anzi credo che accadrà: non mi aspetto nulla di diverso da una serie in cui il telefilm con Nimoy è letteralmente venerato dai quattro nerd e che piace molto addirittura a Stephen Hawking (non devo dirvi chi è, vero?) tanto da comparirci due volte. Finora.
A proposito di Stephen Hawking, il genio inglese è comparso o ha prestato la voce in serie come “I Simpson” e anche... “Star Trek”. Credo che ci sia abbastanza materiale per dare il giusto tributo al dottor Spock in “The Big Bang Theory”, magari nella nona o decima serie con una memorabile partita di carta forbice sasso Lizard Spock, per chiudere un cerchio iniziato idealmente nel 1966, con le prime puntate di uno dei telefilm più famosi della storia.
Lunga vita e prosperità.

sabato 24 gennaio 2015

Atomic Kick Ass, le cosce di pollo mortali


In questi giorni ho letto una notizia che non posso non riportarvi. Utilizzo parte del tempo libero per informarmi su come coltivare al meglio le piante di peperoncino, per diverse varietà di semi che ho messo da parte nell’ultimo anno, tra cui i semi del Moruga Scorpion, il peperoncino più piccante al mondo per molto tempo, e superato nel 2014 dal Carolina Reaper (a proposito, di quello non ho ancora i semi, se qualcuno è disposto a uno scambio mi contatti e vi faccio la lista dei semi che posso offrire a mia volta).
Ebbene, dopo la notizia del giovane inglese morto nel tentativo di mangiare una cesta di peperoncini (e di cui faccio cenno nel mio racconto “Capsicum”, che come suggerisce il nome tratta di peperoncini e che verrà pubblicato nel 2015 su un’antologia), un’altra notizia rimbalza dall’Inghilterra, anche se è datata almeno metà 2014, ovvero la fonte più vecchia che ho trovato. Al Bindi Restaurant, nel Lincolnshire, c’è un giovane cuoco, Muhammad Karim, che ha creato una salsa che definire piccante sarebbe come dire che Stalin ha ucciso qualche persona. Viene realizzata con due tipi di peperoncino, tra cui appunto il Carolina Reaper, peperoncino ibrido della varietà Capsicum chinense, e che sulla scala di Scoville, che misura quanta capsaicina è contenuta nei peperoncini presi in esame, supera il milione e mezzo. Giusto per fare un paragone (che faccio spesso in quanto mi sembra efficace) i peperoncini italiani, in media, non superano 50.000. Il prodotto finale di Karim sembra arrivi a 12.000.000, e assaggiarlo è come poggiare un ferro da stiro sulla lingua.
Questa salsa, che viene tenuta sotto chiave per evitare che venga utilizzata in altre ricette, viene usata per condire le Atomic Kick Ass Drumsticks, un piatto con dieci cosce di pollo che rappresenta una vera e propria sfida da parte della direzione del ristorante: se viene terminato in meno di 15 minuti, si vincono 100 sterline. Peccato che nessuno dei circa 20 temerari che si sono lanciati nella gara abbia superato le due cosce prima di fermarsi. I sintomi? Paralisi facciale, tremori, ma anche emorragie interne per quanti non sono sufficientemente preparati. Appunto per questo motivo, quando qualcuno accetta la sfida delle Atomic Kick Ass, viene allertata la guardia medica e i camerieri, i quali hanno seguito delle lezioni di primo soccorso, monitorano il tavolo in cui si svolge l’”assaggio”. Inoltre il cliente deve firmare una liberatoria ed è tenuto a indossare due paia di guanti. Lo stesso cuoco, durante la cottura della salsa, indossa una maschera antigas poiché solo i fumi potrebbero farlo svenire o peggio.
Dopo aver letto tutte queste informazioni, da una parte non vedo l’ora di provare la salsa, dall’altra si fa spazio la voglia di tenermi stretti i miei “innocenti” esemplari di Habanero e quant’altro riuscirò a far crescere con la prossima semina, senza superare il limite del Moruga Scorpion. Voi cosa ne pensate?