domenica 5 aprile 2020

Meghan Markle vola negli Stati Uniti: è la Megxit 2?


di Elisabetta Esposito

La definiscono così i tabloid britannici, tra cui il Sun, che afferma come questa mossa abbia lasciato “sbalorditi e inorriditi” i membri della Royal Family. Prima che i voli dal Canada agli Stati Uniti fossero cancellati, Meghan, il Principe Harry e il piccolo Archie Harrison pare si siano trasferiti a Los Angeles in via definitiva, lasciando così la loro casa sull’isola di Vancouver.
Stando alle dichiarazioni rilasciate da una fonte anonima, i duchi di Sussex avevano già pianificato questa scelta da tempo: si sarebbero resi conto che il Canada non faceva al caso loro per una serie di ragioni e avrebbero deciso di stabilirsi nell’area di Los Angeles, dove poter lavorare e avere una rete di protezione parentale - poiché lì vive anche la madre di Meghan, Doria Ragland - e amicale. Inoltre è lì che si trovano agenti di Hollywood e pr. Nel Regno Unito molti pensavano invece che i Sussex sarebbero rientrati in patria, almeno nel periodo di emergenza dovuto al coronavirus, per stare vicini ai propri parenti, tra cui il Principe Carlo che è stato contagiato.
Intanto pare che la duchessa sia stata ingaggiata dalla Disney per il doppiaggio di un film benefico sugli elefanti. Alcuni pensano sia la conseguenza del colloquio avuto un anno fa da Harry con il capo della Disney Bob Iger, durante la première del film live action de “Il re leone”. La nuova pellicola sugli elefanti raccoglierà fondi per l’ente Elephant Without Borders e potrebbe essere il trampolino di lancio per Meghan a Hollywood. Meghan sarebbe tra l’altro al lavoro su un libro per bambini.
I tabloid, ora che i Sussex pare siano a Los Angeles, hanno dato vita a un gioco di parole relativo a Harry. Nella metropoli californiana c’è infatti un quartiere chiamato Bel Air, dove è stata ambientata una sit com con Will Smith molto celebre negli anni ’90, “Willy il principe di Bel Air”, il cui titolo originale è “The Fresh Prince”. Il nome del quartiere è diventato nei titoli dei tabloid quindi “Bel Heir”, cioè “erede”, dato che Harry è un principe ed è sesto nella linea di successione al trono britannico.
Lo scandalo però è servito e non riguarda le ambizioni di Meghan, ma il fatto che la coppia abbia disatteso una scelta iniziale di vita: per i sudditi britannici, il Canada rappresentava un modo per i Sussex di restare comunque all’interno della Royal Family, vivendo in un Paese che fa parte del Commonwealth. Ora che si sono trasferiti negli Stati Uniti, cambierà qualcosa negli accordi per la Megxit stretti con la Regina Elisabetta II?

domenica 1 marzo 2020

Coronavirus, la vera natura del contagio


In questi giorni ho letto e visto qualcosina sul tema caldissimo, bollente, del momento, il Coronavirus. Ho atteso un po’ per scriverne, attendendo il momento giusto. Ed è questo.
Sì, perché il numero quotidiano di morti in Cina è in diminuzione dall’inizio del contagio. In Italia, restando alle cose di casa nostra, i primi pazienti registrati a Roma sono guariti, facendo arrivare a quasi 50 il numero totale, e diminuiscono i nuovi casi quotidiani scoperti. A questo punto, se a ogni azione corrisponde una reazione, dovrebbe diminuire la paura di ammalarsi di un virus mortale, almeno in Italia dove si contano 650 casi accertati. Che poi pure definirlo mortale è un tantino eccessivo: risulta letale per poco più del 2% dei contagiati, ciò significa che il 98% guarisce. Un morto non è mai un numero, non dobbiamo perdere l’umanità, ma riporto la percentuale perché abbiamo avuto altri virus più pericolosi in tempi recenti, dalla SARS all’Ebola, per citarne due, e non ricordo una psicosi di massa di questa portata.
Allora perché il Covid-19 fa così tanta paura? C’è a mio avviso un secondo contagio, molto maggiore del primo: quello da social network, da notizie riportate volutamente in modo distorto, da politici che chiedono di chiudere i porti, come se da qualche giorno sui barconi diretti in Italia ci fossero orde di cinesi malati.
Ma, a parte gli allarmismi provocati da altri, come mai l’italiano sta reagendo in maniera così enfatizzata già di suo? “Sessantenne controllato per sospetto Coronavirus” nella propria regione diventa, alle orecchie dei corregionali, “MORIREMO TUTTI! TUTTI!”
Tra l’altro, originale e a tratti suicida il modo in cui si è diffuso (e continua a diffondersi) il contagio in Italia, rispetto ad altre nazioni. Facciamo un esempio: nella cosmopolita Londra nessun caso fino a tempi recentissimi. Poi hanno cominciato a fare i tamponi e in 3, 2, 1 i primi casi acclarati e il primo morto accertato. Dato che è improbabile che questo tizio aspettasse che gli riconoscessero il Covid-19 per morire, direi che ci sono stati tanti altri casi prima. Ma, adesso che è stato appurato che il Coronavirus è “atterrato” in Inghilterra, la popolazione risponde in modo corretto.
In Italia il primo contagiato, l’ormai famoso paziente uno, è andato in giro, ha incontrato gente, ha visitato i dipendenti di cui è manager. Dopo contatti con centinaia di persone, gli è venuto in mente di avvertire che forse poteva essere malato di Coronavirus. Bene, ma almeno poi la cosa è stata limitata al Nord, specialmente a Codogno, scopertasi la nuova capitale nazionale, dato che tutti passano da lì, neanche fosse Medjugorje. Tutti i casi dubbi in quarantena, paesi interi, ma sarebbero bastati 14 giorni e tutto sarebbe finito.
E invece no. Perché c’è stata una diaspora, molti abitanti di Codogno e altri paesi a rischio sono fuggiti al Sud, dove si trovano genitori o altri parenti, mettendo l’Italia a rischio pandemia. Quindi, un popolo che si comporta così può mai capire quando è ora di preoccuparsi lievemente per quella che di fatto è un’influenza, e quando farsi prendere dal terrore più nero?
A ogni modo, come altre influenze andrà via, e gli affari grossi li avranno fatti i supermercati, presi d’assalto e che hanno registrato vendite altissime, per non parlare dei dati d’acquisto dell’Amuchina o delle mascherine. In fin dei conti, non saprei dire se è maggiore il contagio della paura, di chi crede di morire fulminato se si ammala e va a fare la spesa nemmeno fossimo a Chernobyl nel 1986, o quello della stupidità, di chi fugge da zone in quarantena e si reca in luoghi non ancora infetti, ma senz’altro è minore il contagio del virus in sé.

mercoledì 22 gennaio 2020

The Spy, la leggenda di Eli Cohen approda su Netflix


Qualche settimana fa, spinto dal fatto che “The Spy”, come “Chernobyl”, è una serie autoconclusiva di poche puntate (5 per Chernobyl, 6 per The Spy), mi ci sono dedicato. La presenza di Sacha Baron Cohen nel ruolo della spia Eli Cohen ha avuto ulteriore peso: non solo ero curioso di vederlo in un ruolo serio, ma cerco di seguirlo dopo che mi ha sorpreso nel film “Il dittatore”, con alcuni scambi geniali sulla natura dell’uomo mascherati da comicità demenziale.
Il ritmo, come per Chernobyl (premiato recentemente con due Golden Globe, tra cui quello di miglior miniserie dell’anno), è velocissimo. L’israeliano Eli Cohen diventa una spia in terra siriana, dopo i primi contatti in Argentina per costruirsi una storia personale, avvicinando personalità in vista della Siria. Il nome sotto copertura, Kāmil Amīn Thābit, gli si cuce pian piano addosso come i vestiti firmati che gli procurano per entrare nelle grazie dei vertici politici e militari. Il fedele rapporto con la moglie lo porta a destare qualche sospetto, quando si tiene lontano da donne siriane per un tempo troppo lungo, sentendo la mancanza della donna che ama e delle due figlie. Nel momento in cui gli viene consigliato dal Mossad, l’agenzia di intelligence di Israele per cui lavora, di sposarsi, come Kāmil Amīn Thābit, con una donna del luogo, il confine tra la vita da spia e quella da Eli Cohen, marito e padre amorevole, si fa labile e contribuisce alla scoperta e alla cattura. Le doti attoriali di Sacha Baron Cohen, come peraltro mi aspettavo, sono completamente promosse, e continuerò a seguirlo nei prossimi film.
Scrivere che viene catturato non è uno spoiler: la prima puntata si apre con lui in carcere, in procinto di andare verso la pena capitale. In ogni caso la storia di Eli Cohen è ben nota e lo pone di fianco a spie del calibro di Mata Hari, che è stata attiva per molto meno tempo ed è stata catturata per un doppio gioco che stava per diventare triplo poco prima dell’arresto.
Eli Cohen, invece, fedele al Mossad e alla causa israeliana, si è fatto spazio dal 1961 al 1965 fino a diventare viceministro siriano, quindi con una mole di informazioni pressoché infinita da comunicare. Le conseguenze delle sue azioni vengono pagate ancora oggi da una Siria rivoltata come un calzino da Cohen, tanto che il governo locale ha voluto prendersi una rivincita tardiva e, a mio modo di vedere, abbastanza puerile: a nulla valsero le richieste di grazia da parte di vari capi di stato, e perfino da Papa Paolo VI, e venne impiccato nel maggio del 1965. Ebbene, da allora, 55 anni fa, il corpo non è mai stato restituito alla moglie o alle figlie, nonostante gli impegni, le promesse, e la dedizione alla causa della moglie, attiva ancor oggi in tal senso.
Alcune differenze tra realtà e serie TV distribuita da Netflix ovviamente non mancano, ma gli autori, il regista Gideon Raff e gli attori hanno a mio modo di vedere coperto i punti oscuri. Sono plausibili alcuni comportamenti di Eli Cohen nel suo appartamento e nella vita pubblica in Siria, le cui sfumature non arrivavano a Israele, interessata principalmente alle informazioni segrete. Ne esce un ritratto completo che val la pena vedere, anche se siete solo interessati alla serie TV e non a spulciare la storia vera.